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Run with the Hunted

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VOTO: 5

Giochi (inter)rotti

Run with the Hunted è la cronaca di un’odissea umana, quella di un ragazzino di nome Oscar che, avendo commesso un omicidio per salvare da un’aggressione Loux, la sua migliore amica, è costretto a fuggire dalla città di campagna in cui è nato e a lasciarsi tutto alle spalle. Scappa così nella città più vicina, dove entra a far parte di una banda di piccoli ladri di strada e, mentre precipita nel crimine e nella corruzione, vede la sua innocenza scivolare via. Quindici anni dopo, Oscar ha dimenticato il suo passato ed è diventato il capo di questa gang di ragazzini perduti. Quando Loux si trasferisce in quella stessa città in cerca di occupazione, inizia a lavorare con un investigatore privato, e si mette alla ricerca del ragazzo che le salvò la vita.
Finita la visione si ha subito l’impressione di avere assistito alla classica occasione persa, di quelle che gli addetti ai lavori e il pubblico incontrano sempre più spesso sul grande schermo. Nel caso della pellicola scritta e diretta da John Swab, presentata nella Selezione Ufficiale della 14esima edizione della Festa del Cinema di Roma, l’amaro che lascia in bocca l’avere assistito a qualcosa che sarebbe potuto essere e invece non è stato ha un’intensità piuttosto elevata. Il che dispiace perché tanto il plot quanto gli attori chiamati in causa, a cominciare da Michael Pitt e Ron Perlman, se sfruttati meglio avrebbero potuto aiutare il film a ottenere ben altri risultati. E invece siamo qui a riassumere i limiti e i punti deboli di un’opera seconda che proprio nella scrittura registra il suo tallone d’Achille.
Se nel primo atto, quello dell’adolescenza del protagonista, c’è qualcosa che può fare ben sperare riguardo la possibilità di assistere a un interessante romanzo di deformazione, con il jump cut temporale che proietta in là nel tempo la storia e i personaggi, la scrittura mette in mostra tutte le fragilità e le debolezze di un secondo atto dalla struttura narrativa e drammaturgica scricchiolante. Movimenti tellurici interni che riguardano in primis le one lines, ma anche la solidità di un racconto al quale vengono inspiegabilmente meno dei tasselli importanti, quasi fossero stati recisi con una scelerata brutalità dalla timeline. Tasselli, questi, che nell’economia del film avrebbero colmato quei vuoti di senso e di drammaturgia che ora sono vere e proprie falle. Ciò finisce con l’offuscare quelle cose buone che randomonicamente è possibile rintracciare nella pellicola, come ad esempio una manciata di sequenze che si caratterizzano per un’efficace costruzione della tensione (su tutte quella della rapina nel supermercato).

Francesco Del Grosso

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