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Honey Boy

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VOTO: 7.5

LaBeouf e la via della redenzione

Shia LaBeouf si mette a nudo, scrivendo la sceneggiatura di Honey Boy della regista Alma Har’el, presentato alla quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma; un film parzialmente autobiografico, in cui il controverso attore racconta la sua storia, dalla sua infanzia disordinata dominata dall’inesistente rapporto con un padre anaffettivo alle conseguenze derivatane in età adulta.
Honey Boy si sviluppa su due livelli temporali: partendo dal presente, con l’attore Otis/Shia adulto, interpretato da Lucas Hedges, ormai fuori controllo, fermato dalla polizia in stato di ebbrezza e costretto ad un periodo di riabilitazione in un centro specializzato, ci si inoltra sul sentiero dei ricordi, in un passaggio psicoanalitico necessario per superare i traumi dell’infanzia. Ritroviamo così il dodicenne Otis (il bravissimo Noah Jupe) agli inizi della carriera seguito dal padre James, ruolo che Shia LaBeouf si è ritagliato per se stesso, simbolo di una personale catarsi che si concluderà con l’incontro tra padre e figlio e l’inizio della scrittura della sceneggiatura autobiografica.

Presente e passato si mescolano e si alternano, in una messa in scena che passa sovente dal reale all’onirico; sul ponte che unisce il suo vissuto senza soluzione di continuità, l’Otis adulto si autodistrugge nel ricordo di un padre ex ubriacone, reduce dal Vietnam, incapace di esprimere un qualsiasi tipo di affetto, ma anche per la pressione passata e presente di un lavoro più alienante che gratificante; ma nel cuore è rimasto quel bambino alla ricerca di affetto, di un abbraccio… di quell’amore negato che ti spezza dentro. Nel suo percorso verso la riabilitazione, Otis rivivrà i traumi della sua infanzia, ma capirà di essere intrappolato come suo padre in una catena di traumi che seguono a traumi, di alcolismo che segue alcolismo, di generazione in generazione; e allora liberatorio sarà l’incontro finale con il padre, il perdono che spezza la catena.
Grande interpretazione dei protagonisti, guidata da una regia lineare pur negli slittamenti temporali ed onirici; una chiave di lettura profondamente intimista e psicoanalitica; un percorso di redenzione per una vita costellata di eccessi culminante nello script di un film che non colpisce come un pugno nello stomaco ma si insinua lentamente sotto pelle, arrivando diretto al cuore.

Michela Aloisi

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