L’amaro di Alberto Sordi
“L’avaro è di Molière, non di Sonego”
(Rodolfo Sonego in “Il cervello di Alberto Sordi”)
Come dichiarò Tatti Sanguineti in un’intervista rilasciata a Malcom Pagani per “Il Fatto Quotidiano” (4 maggio 2015) per pubblicizzare il tomo “Il cervello di Alberto Sordi”, l’attore romano nell’ultimo periodo era divenuto un questuante che “elemosinava” parti, anche se non erano da protagonista, proprio come gli accadeva agli esordi. Effettivamente per Alberto Sordi erano terminati gli anni in cui era uno dei Re dei botteghini italiani, in cui la produzione di un film ruotava soprattutto se c’era o non c’èra la sua presenza. Questo declino è ravvisabile già all’inizio degli anni Ottanta, e le cause primarie furono: il non sapersi rinnovare, anche perché non aveva una gamma espressiva variegata; l’ostinazione a dirigersi da solo in pellicole mediocri, che però gli consentivano di essere, sotto la sua direzione, protagonista assoluto della storia. Su 19 pellicole interpretate tra il 1980 e il 1998, nove sono dirette da lui; in sei è un comprimario di un cast all-star; e solo in quattro pellicole (di valore modesto) non dirette da lui è protagonista. Vagliando queste 19 pellicole, tutte di dozzinale fattura, i successi sono stati pochissimi, e più per fattori laterali che la sua presenza: Il marchese del Grillo (1981) di Mario Monicelli, ritenuta da molti la sua ultima grande interpretazione (sic!); In viaggio con papà (1982), per la presenza di Carlo Verdone; Troppo forte (1986), nuovamente per la presenza – e la regia – di Carlo Verdone; Vacanze di Natale ’91 (1991), in cui era solo un comprimario e i ruoli da protagonisti li avevano Boldi e De Sica.
Tra le pellicole che avrebbero dovuto rilanciare felicemente la carriera di Alberto Sordi, ci fu L’avaro di Tonino Cervi (1990), che si rivelò, invece, un’infelice produzione. Tratto dall’omonima commedia teatrale di Molière, fu un lussuoso tentativo di rilancio dettata anche dalla fortunata passata trasposizione (in termini d’incasso) de Il malato immaginario (1979), che era diretto sempre da Tonino Cervi. Questa sfarzosa produzione, che assembla un cast tecnico di alto livello e attori italiani e stranieri di rilievo, si risolse in un prodotto insulso, e questo fiasco è riconducibile ad almeno due motivi: l’adattamento cinematografico e le interpretazioni. Le uniche qualità della pellicola, che avrebbero meritato miglior utilizzo, sono la scenografia (Mario Garbuglia) e i costumi (Sartoria Tirelli), che confermano le grandezze artigianali del cinema italiano. A queste due virtù si potrebbero aggiungere gli apporti di Nino Baragli al montaggio e di Armando Nannuzzi alla fotografia, ma questi due contributi sono, in verità, molto meno riusciti. Tralasciando l’inconsistente trasposizione, a cura di Tonino Cervi, Cesare Frugoni, Rodolfo Sonego e Alberto Sordi, riadattata per il cinema solo per dare risalto all’Albertone nazionale e per tratteggiare un paio di banalissime storie d’amore di giovani, la zavorra che fa affondare il film è proprio l’attore protagonista. In questa pellicola Alberto Sordi gigioneggia attraverso frizzi e lazzi di poca comicità, imperniando la sua interpretazione su espressioni facciali buffe ma risapute, e battute loffie, tra cui il suo ripetere, con orgasmo, il tintinnio delle monete. Guardando questa recitazione malamente gigionesca, torna alla mente anche una dichiarazione di Carlo Verdone riguardo Troppo forte, in cui poneva l’accento su come Sordi ormai creava recitazioni inutilmente caricate, da macchiette tipiche del varietà. Alberto Sordi divora, con egocentrica ingordigia, l’infausta pellicola, le poche briciole restanti spettano agli attori che gli devono fare da spalla. Purtroppo anch’essi, benché di vibrante nome, recitano in modo vacuo. Laura Antonelli, già in coppia con Sordi ne Il malato immaginario, mostra al massimo uno stacco di coscia e la sua furba Frosina è scialba. Christopher Lee ha una parte più interessante, come mefistofelico cardinale, ma il suo copione principale è di non oscurare Sordi. Anna Kanakis concede un conturbante, quanto inutile, nudo frontale, mentre Miguel Bosé non ha mai avuto qualità attoriali. I professionisti Carlo Croccolo, Franco Interlenghi e Lucia Bosè, sfortunatamente sono solo mobilio attoriale. Leggendo le cronache di quel periodo, risulta che ci sia anche una versione televisiva, in due puntate, e ciò spiegherebbe anche il perché di un percettibile approccio paratelevisivo; però tale formato è da secoli che non viene trasmesso dalla RAI. È meglio o peggio? Secondo le amare parole di Sonego poste in esergo, è proprio la trasposizione che è sbagliata, lunga o corta che sia.
Roberto Baldassarre