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La mia vita con John F. Donovan

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VOTO: 7.5

Il posto nel mondo

Le vicende dei continui rimandi per l’uscita in sala de La mia vita con John F. Donovan (fino a quando è intervenuta Lucky Red inserendosi nell’ondata di chi vuole puntare anche su una distribuzione estiva) e della campagna critica negli Stati Uniti possono aver creato un pregiudizio negativo nei confronti di questo lavoro. In realtà post visione si esce soddisfatti, a tratti anche inquieti e profondamente colpiti e coinvolti. Xavier Dolan è riuscito ancora una volta a lasciare il segno. Non era semplice mantenere fede a se stesso anche nella prima produzione americana, in cui ha dovuto rapportarsi con attori come Kit Harington, Natalie Portman, Susan Sarandon, Kathy Bates. Sin dai primissimi secondi, chi conosce il regista canadese, comincia a riconoscere lo stile perché subito inizia a “giocare” e comunicare coi fuochi. È come se già ci desse un segnale su chi andremo a mettere a fuoco nel corso di questa storia e (forzando, con rispetto parlando, un po’ la mano) ci indicasse che anche Donovan abbia cercato di mettersi a fuoco nel corso dell’esistenza. Rupert Turner (Ben Schnetzer) è un giovane attore che decide di raccontare la vera storia di John F. Donovan (Kit Harington), star della televisione americana scomparsa dieci anni prima. Lui lo aveva “conosciuto” tramite una corrispondenza epistolare, di quelle che appaiono come una fantasia dei bambini e per cui difficilmente si viene creduti. La stessa giornalista (Thandie Newton) che ora lo sta intervistando da adulto si pone con l’atteggiamento di chi deve portare a casa il lavoro – solitamente si occupa di cause umanitarie e questa vicenda le appare quantomeno banale. Verrebbe da dire che un po’ come fa il regista di Mommy, così Rupert riesce a farsi ascoltare veramente dalla donna che ha davanti, forte di una sincerità che crea una vertigine. «Cosa dovremmo sapere di un artista? Perché è importante per noi?», ascoltiamo a un tratto.
Superficialmente qualcuno potrebbe pensare che si tratta della solita storia della star bella e dannata, col percorso da viale del tramonto; ma una delle abilità di Dolan sta nel personalizzare i temi universali, creando al contempo dei fili rossi con ciò che gli sta a cuore. Ed è così che anche in questo lungometraggio viene tematizzato il rapporto madre-figlio (davvero intensi i momenti con la Portman e nota di merito va al piccolo Jacob Tremblay. Straziante – per quanto di poche parole – quello con la Sarandon) e come lottare per la propria identità (artistica così come sessuale) sia una battaglia assolutamente da compiere, a partire dal nucleo familiare. Il tutto con un giusto equilibrio tra i piani temporali.
«Tutto nella sceneggiatura è ispirato alle cose a cui ho assistito, che ho sentito raccontare o di cui sono venuto a sapere. E il fatto che io sia un regista e anche un attore mi ha facilitato le cose», ha raccontato l’enfant prodige, precisando che questa storia non è autobiografica. «Il film passa dal tema dello show business a un’analisi più privata della vita quotidiana di un giovane uomo che lotta per diventare una grande star, per essere ricordato come un grande attore, e che allo stesso tempo vuole vivere liberamente il suo sogno e la sua vita. E racconta di quanto sia difficile riuscire a fare tutto questo a Hollywood. Fondamentalmente la storia descrive come la celebrità cambia la vita privata delle persone e di come si affronta questa cosa a livello personale. È un film che tratta il tema della celebrità in maniera molta intima».
Ne La mia vita con John F. Donovan non manca un elemento caratterizzante di questo regista: la punteggiatura musicale che, ancor più in certe scene (e non vogliamo spoilerare), aiuta a veicolare la potenza emotiva di ciò che sta avvenendo, colpendo al cuore chi vi assiste.
«Sento di aver sbagliato veramente tutto e se il mio posto non fosse questo? Se avessi rubato il posto di qualcun altro? […] come avresti potuto rubare un posto che è stato creato solo per te?»
Quanto è difficile trovare il proprio posto nel mondo? È un interrogativo che accompagna tutti, alcuni sin dall’infanzia, e non è semplice scioglierlo (sempre che ciò sia possibile), forse bisogna solo conviverci. Il regista di Laurence Anyways riesce a creare materialmente un ponte tra il mito che il bambino ha (rendendolo tangibile e afferrabile) e un attore sull’onda del successo; ma non risparmia delusioni a entrambi. Non ci sono sconti neanche per chi è attorno. Il punto è imparare a crescere e/o lasciarsi andare.

Maria Lucia Tangorra

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