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(Re)Visioni Clandestine #13: 1997: fuga da New York

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Carpenter e Russell nel 1997

«Non m’importa un cazzo della vostra guerra… o del Presidente»
(Jena Plissken a Bob Hauk)

È vero che il manifesto cinematografico – o la copertina di un libro o la cover di un album musicale – è il primo aspetto che può attrarre l’occhio dello spettatore/acquirente, però è soprattutto il titolo che può sedurlo e fargli decidere di vedere l’opera. Se poi il titolo è composto solo da una data futura, allora già in questa coordinata spazio/temporale c’è un mondo venturo che si vorrebbe ammirare e godere. Per esempio uno dei più noti libri della letteratura è proprio composto da un solo millesimo. Il romanzo fantascientifico “1984” (1948) di George Orwell, dietro quel titolo futuristico (creato solo scambiando gli ultimi due numeri della pubblicazione) faceva immaginare al lettore/spettatore un mondo lontano – seppure relativamente abbastanza vicino – in cui la società era sopraffatta e controllata da una ferrea dittatura. Quando venne realizzato un adattamento cinematografico, proprio nel 1984 per opera di Michael Radford, la società distopica tracciata da Orwell non si era avverata del tutto (per fortuna), quindi la versione cinematografica era solo una messa in immagini del famoso romanzo.

Cinematograficamente ci sono diversissime pellicole che hanno per titolo – o nel titolo – una data futuristica immaginifica. Il titolo per eccellenza è l’epocale 2001: A Space Odyssey di Stanley Kubrick, che nel 1968 (ma opera creata già nel 1964 assieme allo scrittore fantascientifico Arthur C. Clarke) modellava un futuro fantasioso – e speranzoso – su basi solidamente super scientifiche. Le pellicole che decidono di apporre nel titolo un millesimo hanno sempre una storia cupa, con una visione del futuro pessimista (come già raccontava Orwell nel suo romanzo). Persino l’opera di Kubrick, seppure si chiudesse con un finale rigenerante, aveva questa venatura negativa. Ad esempio l’abbastanza recente pellicola 2012 (2009) di Roland Emmerich mostrava un futuro prossimissimo nefasto. Oppure nel dittico scolaresco di Mark L. Lester Class of 1984 (1982) e Class of 1999 (1990), s’immaginava che i futuri istituti scolastici potessero essere preda di bande di studenti violenti. Se si stilasse, per diletto cinefilo, un’evocativa classifica di pellicole con date nel titolo, se il primo posto è occupato da 2001 – Odissea nello spazio, il secondo posto va sicuramente riservato a 1997 – Fuga da New York (1981) di John Carpenter. Titolo entrato nella memoria cinefila, però, soltanto in quella italiana, perché il distributore decise di apporre il 1997 al titolo originale, che era Escape from New York. La pellicola, sceneggiata dallo stesso Carpenter assieme a Nick Castle, descrive una New York distopica, in cui il crimine, dal 1988, ha preso il sopravvento e l’isola di Manhattan è stata trasformata, recintandola, in un maxi penitenziario. Nella realtà il 1997 newyorkese, quando si è palesato, è stato completamente differente. Sotto il controllo del risoluto sindaco Rudy Giuliani (1994-2001) e la sua “tolleranza zero”, la Grande Mela ha visto scendere vertiginosamente il crimine, divenendo una città sicura (negli standard delle statistiche). C’è da dire, però, che il commissario Bob Hauk (Lee Van Cleef), benché abbia i baffi, ha lo stesso taglio di capelli di Giuliani, oltre allo stesso modo di porsi tenace con i criminali (Giuliani era sopranominato il “Procuratore di ferro”).
Oltre al titolo, l’altro elemento che ha trasformato la pellicola in un cult è il personaggio di Jena Plissken (in originale Snake), che attraverso il suo humour (uso comune in molti beffardi “eroi” cinematografici) e il suo look (capelli lunghi e benda sull’occhio) da maggior pienezza alla storia. Sono diventati epici per molti cinefili le sue ardite e caustiche risposte a Hauk. In origine la parte del protagonista doveva essere affidata a Clint Eastwood, che sarebbe stata un’idea per nulla sbagliata (basti pensare al risoluto e sardonico personaggio di Ben Shockley in The Gauntlet (in italiano L’uomo nel mirino) di e con Clint Eastwood, del 1977). Fortunatamente (anche per motivi di budget) la parte andò a Kurt Russell, che così divenne un mito. Per Russell, classe 1951, fu l’inizio della sua seconda carriera, dopo un passato adolescenziale in pellicole targate Disney e una carriera di mezzo alquanto opaca. In verità il sodalizio con Carpenter iniziò nel 1979 con il biopic per la televisione Elvis, ma è proprio con Escape from New York che si salda una valida coppia autore/attore che darà origine a una manciata di pellicole funzionali e divenute dei cult movies (The Thing, Big Trouble in Little China) che sapranno riscrivere i generi dell’horror e dell’action. A queste pellicole bisogna aggiungere il deludente seguito/remake Escape from L.A., che non apporta nulla a quanto fatto. Riguardando l’opera di Carpenter, seppure abbia continuato a fare ancora alcune pellicole buone, si nota che manca una presenza attoriale carismatica e riempitiva come Kurt Russell. Russell, fascino da uomo comune, sembra un Clint Eastwood più giovane. Se ci soffermiamo su alcune pellicole del regista, come ad esempio They Live (1988), Vampires (1998) o Ghosts of Mars (2001), notiamo che ai protagonisti manca quel carisma che invece possiede Russell, e che avrebbe dato maggior totalità alla trama.
Seppure il futuro immaginato da Carpenter e Castle non si è avverato (fortunatamente), la pellicola resta tuttora godibile, a conferma dell’abilità che aveva il regista di modellare e ritmare la materia. Con questa pellicola continua la visione cupa e pessimista che ha Carpenter della società, in cui il fascismo impera, però il tutto è stemperato con l’ironia dettata dai personaggi bislacchi rinchiusi nell’isola/penitenziario. Escape from New York ha un movimento come quello di un videogioco, in cui il personaggio inviato in missione deve spostarsi su diversi livelli sempre più complicati. E in questo cupo “gioco”, è fondamentale la scenografia, iper-realistica seppure realizzata al risparmio. Il merito è anche della collaborazione di uno sconosciuto James Cameron, che poi adotterà questa torva visione in Terminator. Escape from New York ottenne un enorme successo, generando (sfortunatamente) anche un sottogenere di marca italiana alquanto effimero. Alla stregua del successo del film di Carpenter nacquero 1990 – fuga dal Bronx (1982) di Enzo G. Castellari (che compone una trilogia con i successivi I nuovi barbari e Fuga dal Bronx), oppure 2019 – Dopo la caduta di New York (1983) di Sergio Martino (che fu accusato di plagio per la somiglianza con Escape from New York).

Roberto Baldassarre

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