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Regina

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Regina film Alessandro Grande
VOTO: 6.5

(Prima o poi) si deve crescere

Regina di Alessandro Grande è stato l’unico film italiano presentato nel Concorso Ufficiale della 38esima edizione del Torino Film Festival. Il regista, vincitore nel 2018 del David di Donatello per il miglior cortometraggio con Bismillah, ha scelto di esordire nel lungometraggio con una storia che, se da un lato tocca un tòpos molto frequentato come quello del rapporto padre-figlio/a, diventa ‘ambiziosa’ per il presupposto da cui tutto è iniziato: «Sono partito dal saggio di Massimo Recalcati “Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del Padre” (Feltrinelli editore, 2014, nda), nel quale l’autore affronta l’assenza e la scomparsa della figura del padre. Telemaco, infatti, lo attende per poter ristabilire in casa quella che Recalcati chiama ‘la legge della parola’, la capacità di svolgere una funzione educativa verso i propri figli», ha dichiarato Grande. Non è semplice costruire un soggetto – e di conseguenza un plot compiuto – da una suggestione psicanalitica come quest’analisi di Recalcati (da cui traiamo questo estratto): «il giusto erede è sempre orfano ed eredita la possibilità del desiderio. L’erede puro non è colui che prende bensì colui che perde qualcosa dall’Altro, ed è attraverso questa assenza che si realizza la ricerca del Padre».
Effettivamente la nostra protagonista, Regina (interpretata da una bravissima Ginevra Francesconi, molto fresca e genuina sul piano della recitazione), è orfana di madre e, inizialmente, la osserviamo in un rapporto molto amorevole e di complicità col padre, Luigi (a cui dà corpo Francesco Montanari, il quale non smentisce come un’espressione e un tono di voce possano trasmettere più di tanti pensieri detti a parole).
La prima scena ce li mostra in barca, la macchina da presa li riprende anche da lontano e ci appaiono molto complici. L’uomo la porta con sé anche sul posto di lavoro (perché poi potrà regalarle in loco un momento insieme). La fiducia tra padre e figlia sembra essere così totale, che Luigi la lascia guidare, ma qualcosa accade inaspettatamente su quel lago, andando a spezzare l’armonia tra i due, oltre che (in particolare interiormente) le esistenze. Lui prova a continuare ad essere premuroso, talvolta anche sin troppo apprensivo; lei comincia a cercare la propria strada (di espiazione), dimenticandosi di quella che stava costruendo anche grazie al supporto di suo padre: una carriera musicale (lui vi aveva dovuto rinunciare).
Trattandosi di un dramma, in cui l’elemento scatenante è centrale, oltre ad alcune reazioni che portano avanti la storia, non possiamo troppo entrare nei dettagli della vicenda, altrimenti cadremmo nello spoiler.
Quello che sicuramente Grande e i due protagonisti riescono a mettere in scena è la messa in crisi di se stessi sul piano individuale e del proprio rapporto (quest’ultima provocata più dall’adolescente che non dall’adulto).
«L’arrivo di un padre maturo e pronto all’ascolto è un bisogno fondamentale per le generazioni dei figli di ogni tempo. Sin dai primi momenti della fase di scrittura ho sentito l’opportunità di fare un film sincero e universale, che potesse arrivare al cuore dello spettatore raccontando una storia sospesa fra il film di genere e il romanzo di formazione, in una Calabria insolita (fotografia curata da Francesco Di Pierro, nda) e personale», ha spiegato con molta onestà il regista ed è proprio questa onestà di intenti che si coglie nel dipanarsi della storia che ci fa ‘perdonare’ qualche ingenuità nell’ingranaggio – viste nell’ottica dell’opera prima ci piace leggerle come dettate da genuinità. Non è mai semplice cimentarsi col lungometraggio, Alessandro Grande ci ha già dimostrato grandi doti sul piano del linguaggio cinematografico (oltre che di empatia) nella produzione breve; qui non mancano i momenti forti sul piano emotivo, ma (forse) una morbidezza ulteriore nell’obiettivo della macchina da presa avrebbe creato un cortocircuito ancora più forte in questa relazione padre-figlia.
Scegliamo di concludere questa riflessione su Regina e rilanciare con le parole di Recalcati: «Le nuove generazioni appaiono sperdute tanto quanto i loro genitori. Questi non vogliono smettere di essere giovani, mentre i loro figli annaspano in un tempo senza orizzonte, soli, privi di adulti credibili. […] Il processo dell’ereditare, della filiazione simbolica, sembra venire meno e senza di esso non si dà possibilità di trasmissione del desiderio da una generazione all’altra e la vita umana appare priva di senso. Eppure è ancora possibile, nell’epoca della evaporazione del padre, un’eredità autenticamente generativa: Telemaco ci indica la nuova direzione verso cui guardare, perché Telemaco è la figura del giusto erede. Il suo è il compito che attende anche i nostri figli: come si diventa eredi giusti? E cosa davvero si eredita se un’eredità non è fatta nè di geni nè di beni, se non si eredita un regno?».

Maria Lucia Tangorra

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