Figli delle stelle
Italia, Liguria. Una bambina di undici anni, Vera Melis, scompare apparentemente nel nulla mentre da una scogliera sparge in mare le ceneri dell’amato cane. Nello stesso momento, in Cile, un uomo di nome Elias viene colpito da infarto e dichiarato morto. Ma in ambulanza, inspiegabilmente, ritorna in vita. Esiste una relazione tra i due fatti?
Operazione inutile svelare altro della trama di Vera de Verdad (per l’uscita italiana Io sono Vera), lungometraggio d’esordio del cinquantaduenne Beniamino Catena presentata Fuori Concorso al Torino Film Festival 2020. In primo luogo perché trattasi di una sorta di mystery interiore dalle continue rivelazioni e colpi di scena; in seconda istanza perché Vera de Verdad è un film essenzialmente di forma, perciò restio ad essere raccontato a parole. Non a caso Catena, dopo essersi fatto le ossa con cortometraggi di genere autoprodotti nei “magnifici” anni ottanta, ha indirizzato la propria carriera nel mondo della pubblicità e dei prodotti televisivi, dove ovviamente l’impatto visuale immediato risulta assai più importante del cosiddetto contenuto. Pregi (pochi) e difetti (molti) che si palesano, oltre ogni ragionevole dubbio, anche in questo prima escursione di Catena nel film di finzione, certamente ambizioso e persino coraggioso nello sfidare a viso aperto lo spettro del kitsch. Sfida vinta? Non esattamente.
Il problema principale, in questa sceneggiatura che gioca poco accortamente d’accumulo tra misticismo di seconda mano, scherzi del Destino ed entità superiori, non è, ovviamente, quella sospensione di credulità a cui lo spettatore cinematografico dovrebbe essere portato per natura. Bensì la scarsa attenzione dimostrata nella descrizione umana dei vari personaggi coinvolti nella vicenda. I quali appaiono semplicemente pedine manovrate da qualcuno per l’appunto molto più in alto di loro (Dio o il regista? O magari entrambi, dentro e fuori la storia…), private di qualsiasi spessore emotivo. Allo spettatore allora, venendo meno qualsivoglia forma di empatia nei confronti di storia e protagonisti, non restano che due alternative: ammirare e farsi rapire dalle splendide locations scelte dalla produzione tra Italia e Cile oppure rassegnarsi ad attendere l’epilogo giusto per soddisfare la curiosità della spiegazione finale all’antefatto dapprincipio citato in testa all’articolo. Mistero che verrà svelato in base ad una, in verità molto poco credibile, teoria sull’armonia universale che governa le vite di tutti. Uno spunto narrativo, insomma, che non sarebbe andato granché bene pure nell’ormai datato cinema partorito dalla coppia Alejandro González Iñárritu (regista) e Guillermo Arriaga (sceneggiatore) sul modello di Babel (2006), anche se in quel caso il respiro complessivo era del tutto differente, assai più ampio. Purtroppo non è sufficiente mettere in sequenza immagini da cartolina per realizzare buon cinema: Vera de Verdad (Veramente Vera, nella libera traduzione italiana) rimane un prodotto destinato ad appagare lo sguardo, ma non la mente e tantomeno il cuore. Uno stanco lungometraggio in salsa tardo new-age la cui programmaticità di fondo raffredda anche le emozioni spettatoriali maggiormente basiche, facendolo sembrare persino più lungo della sua effettiva durata, poco oltre i cento minuti.
Forse Beniamino Catena, che comunque dimostra una buona padronanza del mezzo, troverà altre occasioni per mettersi alla prova, in questo specifico ambito. Magari scegliendo soggetti più originali ed intimisti, meno pretenziosi e maggiormente dedicati al racconto di un umanesimo sincero. Perché al tirar delle somme Vera de Verdad non riesce in alcun modo a sostenere il peso del nulla che intende esprimere ad un secondo livello di lettura.
Daniele De Angelis