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Bismillah

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VOTO: 8

Una questione di vita o di morte

Un tema universale o di stretta attualità rischia sempre l’inflazione e nel peggiore dei casi anche la strumentalizzazione, conseguenti a un sovraffollamento e ad una concentrazione di opere realizzate da una serie di autori che, in dato periodo storico o in seguito a una causa scatenante, hanno deciso di affrontarlo. Il risultato è uno tsunami di titoli sulla breve quanto sulla lunga distanza che si vanno a riversare sullo schermo. Il problema a quel punto è capire quanto realmente il prodotto audiovisivo di turno, indipendentemente dalla provenienza e dalla sua futura destinazione, possa essere realmente figlio di un’esigenza artistica e intellettuale in generale, o quanto, al contrario, nasca dalla volontà del cineasta che ne ha firmato la regia di restare nella cosiddetta comfort zone o di cavalcare l’onda del momento sfruttando il richiamo mediatico.
In tal senso, sono moltissime le pellicole che nell’ultimo decennio, a tutte le latitudini e in tutte le salse, si sono confrontate con il tema dell’immigrazione clandestina e della più o meno mancata accoglienza, ma a conti fatti, per quanto ci riguarda, solo una manciata di queste si sono rivelate realmente sincere e oneste nel trattarlo. Tra queste figura senza ombra di dubbio Bismillah, fresco vincitore del David di Donatello per il miglior cortometraggio e rappresentate designato dall’Italia per la corsa all’Oscar 2019 di categoria, che come avrete modo di constatare con i vostri occhi fa suo l’argomento per poi restituirlo in modo del tutto personale. Il dramma dell’emigrazione rappresenta, infatti, la cornice tematica di profonda attualità su e intorno al quale Alessandro Grande ha costruito l’architettura drammaturgica dello script prima e della sua trasposizione poi.
Nel suo ultimo cortometraggio, presentato in concorso alla 13esima edizione di Cortinametraggio e in altre importantissime kermesse internazionali (da Busan al BUFF di Malmo e il Toronto International Film Festival Kids) il regista calabrese racconta la storia della piccola Samira, una tunisina di 10 anni che vive illegalmente in Italia con suo padre e suo fratello e che si troverà ad affrontare, da sola, un problema più grande di lei. La sinossi, a una prima e superficiale lettura, potrebbe apparire come la classica odissea umana di uno o più personaggi impegnati in una lotta per la sopravvivenza quotidiana in un ambiente ostile. In tal senso, di plot analoghi nell’ampio bacino a disposizione sino ad oggi la Settima Arte ne ha visti passare tanti. La visione, al contrario, scardinerà ben presto tale pregiudizio, offrendo allo spettatore un approccio alla materia viscerale, sensibile e profondo, dal quale emerge in maniera cristallina un modo di porsi da parte dell’autore nei confronti del nucleo tematico che non presta mai e poi mai il fianco alla stereotipazione. Questo modo rispettoso e diverso di porsi, di confrontarsi e di trattare certe argomentazioni, non in linea con certi pessimi modus operandi ampiamente diffusi nella cinematografia nostrana e non solo, è appartenuto a Grande sin dai esordi sulla breve distanza e lavori come Margerita (vincitore di oltre 78 premi nel mondo) o In My Prison ne sono la dimostrazione tangibile.
È dunque l’approccio di Grande, mai banale, superficiale e semplicistico, il cuore pulsante di un’opera che si alimenta del ventaglio di stati d’animo dei suoi personaggi per poi restituirli sotto forma di emozioni che arrivano diritte al cuore del fruitore. Il veicolo nonché portatore sano di queste emozioni è lo sguardo del regista, mai invasivo e canalizzante, messo completamente al servizio della storia e in primis delle dinamiche dei personaggi che lo animano, a cominciare proprio dalla piccola protagonista, autentica e straordinaria rivelazione.

Francesco Del Grosso

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