Il messaggero della morte
Che ci crediate oppure no, Bollywood non è soltanto una portatrice sana di sfavillanti, coloratissimi e pomposi melodrammi e musical. Se nell’immaginario comune si è via via andata a sedimentare l’idea che la cinematografia indiana si limiti solo ed esclusivamente alla produzione dei suddetti generi è perché i film che ci sono stati proposti in questi anni, in ambito festivaliero ma soprattutto nel distratto mercato nostrano, hanno in rarissimi casi mostrato qualcosa di diverso, in grado di scardinarla dalla mente dello spettatore di turno, italiano e più in generale occidentale. La dimostrazione che c’è altro, e che questo merita una certa attenzione, ci viene dalla visione di un’opera come Psycho Raman, presentata in anteprima alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2016 e recentemente nella sezione Festa Mobile della 34esima edizione del Torino Film Festival.
Quello che Anurag Kashyap, già autore di Gangs of Wasseypur, Bombay Velvet e Ugly, porta sullo schermo è un serial-thriller adrenalinico, tesissimo e persino travolgente, che mette da parte le accese e scintillanti sfumature cromatiche tipiche del cinema bollywoodiano per tingersi di un nero asfissiante e di un rosso sangue che gronda scena dopo scena. Nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa, il cineasta e produttore indiano racconta la storia di Raman, un serial killer che vive a Mumbai e che trova, per così dire, ispirazione nelle gesta di un suo predecessore, l’omicida seriale Raman Raghav, che operava in India negli anni Sessanta. Oltre a quella per il suo mentore, ha una seconda grande ossessione: quella per il giovane poliziotto Raghav. Fa di tutto per trovarsi faccia a faccia con lui. Ma se il killer non è del tutto normale, anche il poliziotto non è un esempio di stabilità mentale…
Le premesse potrebbero fare pensare a un horror iper-violento sulle gesta omicida del pazzo di turno, pieno zeppo di sequenze di macelleria gratuita, ma non è così. Semmai il rapporto maniaco-ossessivo che unisce i due protagonisti potrebbe in qualche modo riportare alla mente quello che si instaurava tra il John Doe e il David Mills di Seven e la coinvolgente caccia all’uomo che ne scaturiva. Trama alla mano, con analogie annesse, la mente torna però a Copycat di Jon Amiel, con il quale ha non pochi punti in comune, a cominciare dalla figura del seriale e dal suo modus operandi. Il personaggio di Peter Foley, infatti, per i suoi delitti si ispira alle figure di celebri serial killer realmente esistiti: Albert DeSalvo, Angelo Buono & Kenneth Bianchi (gli strangolatori di Hillside), David Berkowitz, Peter Kürten, Ted Bundy, Edmund Kemper e Jeffrey Dahmer. Davvero una ricca galleria di psicopatici dai quali trarre spunto per tutti coloro che non possono fare a meno di andare in giro a trucidare gente. Anche il Raman di Psycho Raman si rifà a qualcuno di realmente esistito, ma la lista nel suo caso si ferma a un solo carnefice, che è sufficiente a mettere in relazione i due malvagi protagonisti delle pellicole di Amiel e Kashyap, con le rispettive efferate azioni a riempirne la fedina penale.
Al di là che possa piacere oppure no, quello che abbiamo particolarmente apprezzato di Psycho Raman è l’epurazione dallo script e dalla sua trasposizione di ipocrisie e facili moralismi. Per farlo, Kashyap disegna personaggi speculari, ciascuno a proprio modo sporchi, marci e con non pochi scheletri nascosti nell’armadio, che sfuggono per DNA alla netta divisione che si è soliti fare tra esponenti del bene e del male. In tal senso, anche Raghav non è un poliziotto modello da seguire e nel quale trovare riparo e giustizia: alcolizzato, cocainomane, corrotto e violento; che a confronto il Rocco Schiavone dell’omonima e contestata serie televisiva nostrana è uno stinco di santo.
Quello firmato dal regista indiano è un film che mette in scena proprio il confine fra bene e male, che ha perso ogni soluzione di continuità. Allo stesso modo non bisogna cadere nell’errore di associare Psycho Raman, così come non lo erano stati in passato i vari Vallanzasca, Nemico pubblico e L’instinct de mort, a una glorificazione di una figure malvagia vestita da biopic. Kashyap non lo glorifica, al contrario lo condanna mostrandone l’efferatezza e la follia, lasciando che sia lo spettatore a capirlo. Per questo scegliamo di chiudere questa recensione riportando fedelmente quanto scritto dall’autore nelle note di regia che accompagnano l’opera: «Fare questo film non significa glorificare la figura di Raman Raghav. Abbiamo usato la forma di un thriller romanzato per intessere una storia su argomenti che di solito ignoriamo. Questo film non è basato su un personaggio della vita reale; si ispira però a un personaggio che è vissuto negli anni Sessanta. È difficile fare un film ispirato a un personaggio reale perché ci si muove su territori molto pericolosi e si avverte il proprio senso di responsabilità».
Speriamo che queste sue parole possano bastare a spiegare e far comprendere al fruitore di turno la vera essenza di un film che, avrà anche i suoi limiti, come ad esempio la saturazione drammaturgica e la ridondanza di certe soluzioni stilistiche ultra-pop nella regia, ma che sa come affondare il coltello e disturbare colui che guarda.
Francesco Del Grosso