Immaginazione al potere
Saper essere classici pur senza trasformarsi nella copia sbiadita di un prodotto Disney e, allo stesso tempo, senza perdere la propria specificità, non è cosa facile, soprattutto nel mondo sempre più uniformante dell’animazione.
Una capacità rara ma senza dubbio non estranea al lavoro dei francesi Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol che con Phantom Boy, ultima loro fatica presentata alla trentatreesima edizione del Torino Film Festival, danno vita a un prodotto capace di amalgamare, rimaneggiandole, suggestioni differenti, senza perdere nulla del proprio tratto originale e distintivo, lontano anni luce da un sistema codificato e autoreferenziale.
Dopo il notevole esordio (ancora al TFF) nel lungometraggio con Un gatto a Parigi, dove a un soggetto tradizionale a metà strada tra Gli Aristogatti e La carica dei 101 si contrapponeva uno stile già immediatamente riconoscibile tanto nel tratto quanto in una narrazione capace di conciliare la dimensione ludica a un sentire tutt’altro che ingenuo e finzionale (la piccola protagonista, ostinatamente muta in seguito all’omicidio del padre), la coppia francese alza la posta in gioco, ribadisce i propri punti di forza e cambia ambientazione, confrontandosi, questa volta esplicitamente, con l’immaginario d’oltreoceano.
In una New York cupa e cinematograficamente evocativa va allora in scena la storia di Leo, bambino leucemico in grado di staccarsi, durante il sonno, dal proprio corpo in una sorta di viaggio astrale che lo porterà a essere gli occhi e le orecchie di un ispettore in sedia a rotelle, nell’eroica impresa di sventare i piani criminali di un villain ridicolo, folle e sfigurato.
Fondendo spunti supereroistici a suggestioni tipicamente noir, dove Il collezionista d’ossa incontra il Joker, il soprannaturale il poliziesco, rendendo, infine, il tutto funzionale a una vicenda intima e umana senza per questo intaccare la leggerezza divertita e citazionista del gioco tra i generi, Phantom Boy mette in scena, con un’intelligenza e una sensibilità mai macchiate da patetismo di sorta, una storia sull’infanzia e la malattia, sulla vita e sull’ombra, onnipresente, della morte.
Rispondendo, delicatamente e brillantemente, a quanti credono che la maturità, l’autoconsapevolezza e la freschezza di sguardo siano, nel migliore dei casi, prerogativa (recente) solo di certe grandi produzioni (vedi la Pixar) o, nel peggiore, qualità che malamente si conciliano a un film di animazione, i registi compongono, all’interno di una storia in bilico tra farsa e quotidiano, fantasia e realtà, un inno alla magia del cinema, a quel gesto ispirato e partecipe capace di tramutare persino la malattia in superpotere, il dolore in speranza e riscatto.
Con la leggerezza immaginifica di un gioco tra bambini e con il rigore un po’ folle della migliore tradizione del cinema d’animazione europeo, tra gag e sprazzi onirici, lacrime e risate, Phantom Boy si insinua nell’animo degli spettatori con la forza sognante del disegno e con un’umanità che con la finzione ha davvero poco da spartire.
Mattia Caruso