“Ciò che è giusto”
Gianni Zanasi è un cineasta sensibile, appartato, dalla filmografia scarna nonché da sempre fautore di un cinema minimalista nella forma ma tutt’altro nella sostanza. Perché fermamente convinto che in ogni storia narrata sia necessario mettere al centro personaggi che, inquadratura dopo inquadratura, acquisiscano spessore, diventino autentiche persone con le quali lo spettatore riesca ad empatizzare e, cosa ancora più importante, dialogare in senso non letterale. Un approccio che, nella sua ultima opera dal titolo La felicità è un sistema complesso, è divenuto la chiave di volta per realizzare uno dei rarissimi film davvero “politici” – le virgolette vogliono indicare assieme l’astrazione e la totalità del termine – recentemente realizzati nel nostro paese. Una scelta di campo, non scevra da connotazioni spontaneamente ideologiche, che ha finito con il comportare anche uno scarto evidente nel suo modus operandi stilistico: abbandonato, chissà se momentaneamente, l’understatement estetico, ecco prevalere una maggior consapevolezza della cosiddetta “macchina cinema”, composta anche di montaggio esibito, fotografia translucida, riprese sghembe e colonna sonora assai presente; come se la forma sentisse la necessità di adeguarsi in qualche modo alla confusione esistenziale dei nostri tempi, in cui la bellezza di pura superficie quasi mai coincide con quello che è realmente necessario.
Al centro del plot, come nel delicato Non pensarci (2007), ancora un’indagine sui generis. Allora la (ri)scoperta di dinamiche famigliari rimaste da tempo sottaciute, qui il traumatico ingresso nel mondo dell’alta finanza da parte di due ragazzi rimasti improvvisamente orfani. A farci da guida di nuovo un Virgilio di eccezione, un Valerio Mastandrea che stavolta veste i panni di Enrico Giusti (nomen omen). Di cosa si occupa, nella finzione del film? Di un lavoro che non è tale ma che diviene pressoché indispensabile in tempi di globalizzazione economica. Prima scelta morale del film: Giusti, esperto di un mondo dove latitano gli scrupoli etici, deve entrare in confidenza e quindi convincere i due ragazzi Filippo e Camilla – per l’appunto eredi diretti di una grossa industria dopo la tragica scomparsa dei genitori – a cedere la loro quota di maggioranza a persone dotate di maggiore, diciamo così, scaltrezza negli affari. Compito facile, sulla carta. Assai difficile, però, quando si trascura quel fattore umano come di consueto presentissimo nel cinema di Zanasi. Personificazione di questa incognita algebrica fattasi miracolosamente di carne e ossa sarà una ragazza israeliana (interpretata dalla straordinaria Hadas Yaron de La sposa promessa, miglior attrice alla Mostra di Venezia 2012) mollata a Giusti dal fratello per scarso senso di responsabilità. Seconda scelta morale di Zanasi: una giovane ebrea a rappresentare il granello di polvere che mette in crisi un ingranaggio industriale che non prevede sottigliezze, solamente carnefici e vittime. Fino a quando alcune delle persone di un film che gradatamente va perdendo la sua connotazione di “fiction”, si accorgeranno che non è la felicità ad essere un sistema complesso, bensì l’umanità stessa. Fatto quest’ultimo che condurrà inevitabilmente al compimento di determinate scelte.
Avesse sfrondato il suo lungometraggio di alcuni passaggi narrativi abbastanza fuori tono e sopra le righe (l’operaio che si dà fuoco in piazza per la delocalizzazione della fabbrica, il finale forse esageratamente utopico), il regista/sceneggiatore Zanasi avrebbe realizzato una splendida commedia venata di amarezza incentrata su un corpus sociale del tutto, o quasi, sclerotizzato nella propria contemplazione narcisistica. Ma anche con tutti i suoi difetti, La felicità è un sistema complesso – presentato in anteprima al Torino Film Festival 2015 nella sezione Festa Mobile – resta un film da amare incondizionatamente anche solo per il fatto di rompere con coraggio i soliti schemi da innocua commedia – nella migliore delle ipotesi – cui il cinema italiano ci ha abituati da decenni. Ne La felicità è un sistema complesso si sorride e si riflette, partecipando emotivamente ad un percorso di crescita che non riguarda, fortunatamente, solo i più giovani. Ed è proprio questa capacità di guardare dentro e fuori l’essere umano, a trecentosessanta gradi e senza confini di età, a renderlo ulteriormente prezioso. A maggior ragione oggi.
Daniele De Angelis