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Un gatto a Parigi

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VOTO: 7

Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco

Furtivo come un gatto viene finalmente distribuito in Italia, grazie all’intraprendenza della P.F.A. Films, un lungometraggio d’animazione datato addirittura 2010, che nel mentre di riconoscimenti internazionali ne ha ricevuti davvero tanti. In primis la candidatura all’Oscar come Miglior Film d’Animazione. Ma sono parecchi i festival di una certa importanza che lo hanno inserito volentieri in concorso, dalla Berlinale all’International Children’s Film Festival di New York, da Annecy a San Francisco. Una piccola kermesse italiana che lo ospitò con lusinghieri riscontri è il Mosaico d’Europa Film Fest  di Ravenna, circostanza che ci ha permesso di scoprire già a suo tempo tutta la delicatezza e la naïveté di quest’animazione dal tratto leggero. Rivedere ora in sala il film diretto da Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol, Un gatto a Parigi, rappresenta senz’altro una boccata d’ossigeno, stando a un panorama festivo che generalmente vede smerciati nei cinema, proprio in tale periodo, prodotti di gran lunga più omologati e scadenti.

Dal canto suo, Un gatto a Parigi è film che può far sognare i più piccoli, deliziando al contempo un pubblico più maturo, esigente e ricercato. Tutto ciò anche per il taglio dato alle avventure del gatto Dino. Il felino protagonista ha infatti un aspetto grazioso e accattivante, oltre a essere l’angelo custode della piccola Zoé, figlia unica di una coppia di poliziotti, uno dei quali scomparso drammaticamente per colpa di un ladro senza scrupoli. Lo script non regala unicamente momenti di tenerezza tra il gatto e la bambina (che si vede peraltro regalare dal micio un gran numero di lucertole cacciate e uccise, come a ribadire sin dall’inizio il rifiuto di un timbro troppo zuccheroso) o immagini suggestive dei tetti di Parigi, ma si sbizzarrisce nel seminare ovunque situazioni più movimentate, vivaci, pepate, come quelle riguardanti le azioni ciniche e spietate del rapinatore stesso. Costui, a parte essere responsabile di ciò che accadde al padre di Zoé, pare disposto proprio a tutto, pur di portar via dal museo l’imponente, preziosissimo Colosso di Nairobi. E questo agli altri protagonisti del delizioso racconto animato frutterà pericoli, inganni, inseguimenti e avventure mozzafiato. Oltre a dispensare pillole di humor per niente disprezzabili (i duetti tra Dino e il cane Rufus sono esemplari, in tal senso), il lavoro dei due autori francesi brilla per l’eleganza un po’ sognante del tratto, dei colori, degli stessi movimenti ottenuti con tecniche d’animazione tradizionali. Tale impronta, che appare un po’ d’altri tempi, non impedisce loro di sperimentare ulteriormente, di giocare, di inserire sequenze che seguono stilisticamente logiche particolari. La scena in cui viene staccata la luce nel covo dei ladri, riducendo tutta l’azione a un essenziale alternarsi di buio e linee che si snodano da una stanza all’altra, ne è forse l’esempio più felice. Sembra pertanto di tornare alla semplicità insita in certe antiche, deliziose intuizioni figurative, come quelle che caratterizzavano La Linea di Osvaldo Cavandoli nell’animazione italiana di qualche decennio fa. Ed un qualcosa che arricchisce ancora di più l’estetica del lungometraggio transalpino, per il resto così buffo, brioso e narrativamente agile.

Stefano Coccia

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