Un ultimo spettacolo
Un velo di tristezza cala su tutto il mondo cinefilo in questo inizio di 2022. Non potrebbe essre altrimenti. Perché con Peter Bogdanovich tramonta, in modo purtroppo definitivo, una concezione romantica verso la Settima Arte con pochissimi eguali in passato.
Critico illuminato. Compositore di canzoni da film. Sceneggiatore. Ovviamente regista. Anche di pregevoli documentari, come ad esempio lo straordinario Directed by John Ford (1971), pietra miliare sul cinema di un autore quintessenziale nella Storia del Cinema. Appunto. Lo sguardo autoriale di Peter Bogdanovich è sempre stato rivolto al passato, osservato con malcelata nostalgia. Cinema sovente in bianco e nero, ad omaggiare i bei tempi che stavano scivolando via nel ricordo di molti. Non per lui. E dire che il suo esordio registico segnò una clamorosa controtendenza rispetto a ciò che venne in seguito. Correva l’anno 1968 quando sugli schermi statunitensi comparve Targets, un thriller con venature orrorifiche su un cecchino impazzito, reduce dal Vietnam determinato a compiere una strage. Cronaca nera romanzata. Alla sceneggiatura nientemeno che Samuel Fuller, per un’opera avanguardistica e sperimentale. Ma ecco affiorare anche qui l’insopprimibile anima cinefila di Bogdanovich: a fronteggiare lo psicopatico, anima oscura di un’America ferita a morte dal conflitto nel sud-est asiatico, ecco Boris Karloff, nei panni – guarda un po’ – di un vecchio divo di cinema horror. L’orrore cinematografico che fronteggia l’orrore reale. Se non è viscerale amore per il Cinema, oltre che magistrale teoria, questo… Un’opera inevitabilmente destinata a farsi notare.
Nel 1971 Bogdanovich realizza L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show), andando a toccare, per la prima volta, quelle corde intimiste per cui diventerà ben presto conosciuto. In un paesino sperduto nel Texas un gruppo di liceali si accinge, dopo il diploma, al grande salto verso l’età adulta, pieno di incognite. Nel cast anche i giovanissimi Jeff Bridges e Cybill Shepherd – con cui il regista ebbe una relazione – per un film seminale al pari di pochissimi altri. Per autori futuri come Richard Linklater, cantori principi della fase di passaggio dalla gioventù all’età adulta, un titolo di riferimento. La “nostalgia canaglia” di cui Bogdanovich si fa eccelso portatore ritorna a pieno regime anche nel leggendario Paper Moon (1973), con la piccola, irresistibile, Tatum O’Neal – accompagnata nella finzione da papà Ryan – a fare incetta di riconoscimenti, Oscar compreso. In un’opera, nemmeno a dirlo in bianco e nero, che pare la perfetta rievocazione del miglior cinema muto di Charlie Chaplin. Però parlato, con dialoghi pure di un certo acume. Del resto l’amore per la commedia corale di stampo classicheggiante da parte di Peter Bogdanovich si è già manifestato con Ma papà ti manda sola? (What’s Up, Doc?, 1972), oliatissimo meccanismo comico nonché implacabile veicolo di popolarità cinematografica per Barbra Streisand.
Gli anni settanta costituiscono il periodo di maggiore attività artistica per Bogdanovich, che si dibatte tra titoli eccellenti ed altri meno degni di nota, come ad esempio una trasposizione di Daisy Miller (1974) da Henry James non particolarmente riuscita. Notevole omaggio metacinematografico è invece Vecchia America (Nickelodeon, 1976), ancora con la coppia Ryan e Tatum O’Neal. Senza raggiungere il successo di Paper Moon, il film si mantiene su livelli di alta godibilità.
Il decennio successivo si apre con la scatenata commedia …E tutti risero (They All Laughed, 1981), titolo tra i più conosciuti dell’autore newyorchese. Un lungometraggio ricordato anche per la presenza nel cast di Dorothy Stratten, bellissima ex modella di Playboy legata sentimentalmente a Bogdanovich. Purtroppo uccisa poco dopo dall’ex fidanzato in un raptus di inconsulta gelosia. Una tragedia che segnò profondamente Bogdanovich. Il quale, non casualmente, torna alla regia nel 1985 con la drammatica storia di Rocky Dennis in Mask – Dietro la maschera (Mask). Opera che illustra senza fronzoli la lotta per il diritto ad una vita normale di un ragazzo affetto da una rara malattia con conseguente deformazione facciale. Toccanti interpretazioni di Eric Stoltz nei panni del protagonista e di Cher, nella parte di una “madre-coraggio” premiata come miglior attrice al Festival di Cannes. Un’ulteriore dimostrazione della sopraffina capacità di Bogdanovich nella direzione del cast.
Considerando Mask l’ultimo autentico sussulto autoriale della carriera di Bogdanovich, il resto della filmografia si segnala per una ricerca dei passi perduti. Come accade in Texasville (1990), sorta di aggiornamento del celebre L’ultimo spettacolo, con ad emergere una visibile punta di amarezza per il tempo inevitabilmente trascorso. L’alternanza tra dramma esistenziale e commedia pura prosegue con il brillante Rumori fuori scena (Noises Off… 1992), sulle disavventure di uno scalcinato gruppo di attori teatrali capitanati da un Michael Caine in straordinaria forma recitativa. Ultimi squilli di un autore che da lì in poi vedrà la propria carriera adagiarsi in prevalenza su binari televisivi comunque non privi di guizzi artistici.
Peter Bogdanovich ci lascia con un ultimo lungometraggio di finzione, la commedia “woodyalleniana” Tutto può accadere a Broadway (She’s Funny That Way, 2014). E noi vogliamo ricordarlo così, con un sorriso venato di quella sottile malinconia che rappresenta un po’ la metafora del suo cinema, sospeso tra gioia e dolore. Una finzione che ricorda tanto la vita reale, in un processo osmotico condotto da Bogdanovich con una sapienza destinata ad essere rimpianta già da ora.
Daniele De Angelis