Gruppo di famiglia in due interni
Autorevole esponente di quell’ondata di cineasti sudcoreani che si è imposta ai festival internazionali, insieme a Lee Chang-dong e a Park Chan-wook, e che proprio Cannes aveva fatto conoscere, Bong Joon-ho torna e sbanca al festival francese con Parasite. Un festival che l’aveva, come già i suoi connazionali, sempre coccolato fino a proporre anche l’imbarazzante Okja, scivolone dell’autore fatto per Netflix, pure presentato in Concorso in nome di una distorsione della politica degli autori che ancora prevale oltralpe.
Con Parasite Bong Joon-ho torna al cinema sudcoreano, dopo le digressioni in lingua inglese (oltre a Okja, Snowpiercer), raccontando di rapporti di classe, di due famiglie, di due case appartenenti a strutture sociali separate da un enorme divario. Divario che figurativamente si traduce in un contrasto tra le due abitazioni: da un lato i reietti che vivono in un seminterrato, disordinato e denso di oggetti, finanche con un water posto sopra su un ripiano. Dall’altro una villa dall’architettura high tech, dove predominano linee e geometrie squadrate. E qui attingiamo al repertorio del cinema sudcoreano e alla dimora signorile di The Housemaid di Im Sang-soo, corrispondente futurista della classica dimora colonica da melò, in un film peraltro che è il remake di un classico del cinema sudcoreano del 1960. Film che parlano ancora di rapporti di classe, della servitù in una famiglia signorile. Le due abitazioni di Parasite si richiamano, l’un l’altra, per una grande finestra orizzontale, che dà sul vicoletto nella casa dei poveri, e sul proprio parco in quella dei ricchi. Due architetture simboliche di due spazi sociali che finiscono per entrare in commistione e in conflitto. Come le due parti di un film che inizia come commedia e finisce in tragedia splatter. Tra questi due estremi di organizzazione spaziale, sta la pietra del paesaggio, un amuleto tipico orientale regalato da un amico al figlio, con la sua forma naturale, irregolare che sembra svolgere il ruolo di portafortuna. Ma a questa si aggiungono gli stratagemmi del mondo digitale, che permette a tutti di realizzare un diploma falso, con tanto di timbro, via photoshop, nella situazione che dà origine alla narrazione del film.
Come in The Host il regista si era dimostrato in grado di fare satira sociale con un monster movie, e se in Snowpiercer il treno rappresentava una suddivisione delle caste con i poveri a occupare le ultime carrozze, con Parasite Bong Joon-ho torna a occuparsi di ciò che conosce meglio, ovvero la società sudcoreana, con i suoi formalismi, le sue rigidità, e la sua struttura famigliare. E lancia anche qualche riferimento alla Corea del Nord, nelle battute ironiche sul leader máximo Kim Jong-un, nel considerare che la villa dei ricchi si sviluppa anche in profondità con un bunker, privilegio antiatomico di pochi. E delinea anche una struttura urbanistica gerarchica da Metropolis, dove svettano le case dei ricchi sulle colline, mentre quelle dei poveri occupano i meandri, diventano il ricettacolo dei rifiuti e della sporcizia, occupano spazi che fungono da scolmatori delle acque piovane, impregnati di puzza come una fogna. E il degrado ambientale, l’inquinamento, come domostra The Host, genera mostri.
La Palma d’oro arriva finalmente, dopo che Cannes è stato il festival che più ha ospitato la nuova generazione di autori sudcoreani. Simboleggiata da uno degli attori ormai di culto del paese asiatico, Song Kang-ho che qui veste mirabilmente i panni dello straccione, del capofamiglia dimesso. Ma si tratta di una Palma tardiva e non all’opera migliore del regista né della sua generazione.
Giampiero Raganelli