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Liberté

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VOTO: 9

La pietra filosofale

Nel suo precedente film Història de la meva mort, Albert Serra mostrava una pietra filosofale, capace di trasformare gli escrementi in oro. Con Liberté, presentato in Un Certain Regard a Cannes 2019, questo principio alchemico diventa la metafora stessa del suo cinema. Un cinema che ora mostra qualcosa di disgustoso, come in una pornografia di freak che non risparmia nulla allo sguardo, corpi marcescenti, o con amputazioni, uno dei quali trasfigurato con la pelle ustionata (come nel film sperimentale War Is Menstrual Envy di Nick Zedd) – ulteriore presenza della malattia nel cinema di Serra –, orge con tanto di urofilia e urofagia, sodomie con frutta, prigionieri sessuali, blasfemia, avvicinandosi al lavoro del collega Alain Guiraudie (che mette in scena la sessualità di persone marginali). E trasformando questa estetica del ribrezzo in qualcosa di pittorico, che oscilla tra Dürer, Bosch e Bruegel.

Liberté sviluppa uno spettacolo teatrale dallo stesso titolo che Albert Serra portò in scena l’anno scorso al teatro Volksbühne di Berlino, di cui conserva l’incipit narrativo, la storia di un gruppo di nobili francesi, espulsi dalla corte puritana di Luigi XVI, che cercano di diffondere ideali di libertinismo nella Prussia di Federico II. Tutto ciò nel 1774, alla vigilia della Rivoluzione francese. Mantiene anche la presenza iconica tra gli attori, come ha già fatto con Jean-Pierre Léaud in La mort de Louis XIV, del “viscontiano” Helmut Berger. Nella versione teatrale Serra faceva ampio uso di carrozze, o palanchini, giocandole come palcoscenici interni, con le tendine in funzione di sipario, chiuso il quale potevano assumere la connotazione di boudoir. Ma nel cinema non ci sono sipari, le carrozze si vedono ancora ma più limitatamente, e Serra scopre tutto, esibisce con crudezza ogni forma di perversione.
Albert Serra è ormai sempre più attratto, come Stanley Kubrick, dal Settecento e dalla sua fine, dalle transizioni della Storia, dalle antinomie di Illuminismo e Romanticismo, ragione e sentimento, libertinismo e capitalismo, assolutismo e rivoluzione, religione e scienza, malattia e medicina, cultura francese e tedesca. E ancora la sua messa in scena è improntata alla stasi narrativa, perché in realtà i personaggi sono travolti dai vortici epocali della Storia, avviluppati in forma inerte quindi in una drammaturgia superiore.
Le basi del Romanticismo stanno per essere elaborate in Germania, a opera di Friedrich Schlegel, dove si innestano i fautori del pensiero libertino illuministico. Il secolo dei lumi è agli sgoccioli, «Si fa buio» dice qualcuno all’inizio della versione teatrale e tutto il film sarà in effetti avvolto nelle tenebre, in un bosco tra il frinire delle cicale, a parte l’ultimissima scena dove torna l’illuminazione. La cruenza dell’assunto viene subito enunciata nel racconto della fine atroce dell’autore di un tentato attentato a Luigi XV, la cui esecuzione è consistita nello smembramento del suo corpo, trainato da due cavalli in direzioni opposte.
Facile associare Liberté a Pasolini, perché la visione sadiana che Serra mette in scena è paragonabile, e altrettanto insostenibile, a quella di Salò o le 120 giornate di Sodoma; ma anche perché il bosco del film è, al pari della spiaggia di Ostia dove il poeta perse la vita, un luogo di ‘cruising’, per appartarsi, un luogo di perdizione dove aleggia la morte.

Giampiero Raganelli

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