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Obra

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VOTO: 7

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Una delle funzioni primarie di un festival cinematografico dovrebbe essere quella di far emergere nuovi autori, voci che abbiano qualcosa di personale da raccontare senza adeguarsi alla facile equazione film con stile = film da rassegna per cinefili. Indubbiamente questo Obra del cineasta brasiliano Gregorio Graziosi – presentato nella sezione competitiva “Cinema d’Oggi” del Festival Internazionale del Film di Roma edizione 2014 – di preziosismi stilistici è molto ben fornito. Un’ottima fotografia in bianco e nero che ben sottolinea il clima crepuscolare e soffocante della trama, nonché la splendida composizione visiva di alcune inquadrature di una San Paolo ora fagocitante metropoli alienante, ora minacciosa cittadina pronta a svelare i propri segreti nei suoi angoli più reconditi. Però in Obra non c’è solo la forma, ma anche parecchio d’altro. Innanzitutto Graziosi – anche sceneggiatore assieme al connazionale Paolo Gregori – ha il coraggio di gettarsi a capofitto nel cinema di genere, per l’occasione il thriller psicologico d’atmosfera tanto caro al Roman Polanski del primo periodo di carriera, tanto per fare un esempio. Ma soprattutto di riuscire, attraverso essenziali immagini accompagnate da scarnificati dialoghi spesso criptici, a creare suspense unicamente con mezzi cinematografici primari, senza ricorrere ad alcun artificio come un montaggio esasperato o effetti sonori assordanti. Anche la nuda trama è a dir poco basica: Joao (Irandhir Santos), giovane architetto benestante, sta per divenire padre ed è alla prese con un progetto che gli sta molto a cuore, la costruzione di un edificio da lui ideato. Sul terreno di famiglia prescelto viene però scoperto, nel corso degli scavi preliminari, un cimitero clandestino. Il fatto avrà un effetto dirompente sulla psiche del protagonista, anche a causa dell’intervento di alcuni fattori esterni.
Graziosi con Obra non si mimetizza certo in un basso profilo, affrontando argomenti come nascita, vita e morte talvolta ricorrendo a simbolismi un po’ ingenui – le spoglie scenografie del letto d’ospedale dove giace il nonno morente, tanto per citarne uno – ma rimanendo sempre coerente al discorso da subito introdotto nel film. Perché in fondo, in mezzo alle due certezze che accompagnano il percorso comune in questo mondo (nascita e morte, appunto) la variabile impossibile da calcolare e/o pianificare per intero rappresenta proprio il modo di vivere l’esistenza da persone adulte che ci appartiene. Il personaggio di Joao trasmette angoscia poiché egli stesso si ritrova del tutto smarrito nel passaggio tra certezze del vecchio e insicurezze del nuovo. Il distacco obbligato dalle sicurezze affettive della famiglia d’origine, con l’agonia dell’anziano nonno a fungere da sineddoche, è completamente speculare alla demolizione dei vecchi edifici ormai poco sicuri per far posto all’edificazione di nuovi, istanza che a sua volta trova geometrico riscontro nella nascita del figlio, con tutte le enormi responsabilità che un fatto del genere comporta. Obra (Opera in italiano, con riferimento al progetto architettonico di Joao) è in fondo un lungometraggio a valenza universale, impossibile da ricondurre ad un preciso alveo geografico, sia pure in un territorio ricco di credenze religiose e superstizioni come il Brasile: l’oggetto principale esaminato dal film è infatti l’imperscrutabilità del tempo che scorre inesorabile, con tutto il carico di “orrore” – dalle possibili malattie all’inevitabile invecchiamento – che si trascina con sé. Vecchi fantasmi che sono destinati a riemergere dall’inconscio, prima o poi, allevati e cresciuti dentro di noi a nostra insaputa. E basta sempre molto meno dell’emersione di un antico cimitero a farli deflagrare in tutta loro destabilizzante potenza.
Obra forse non riesce, per eccessivo controllo da opera prima, a compiere il gran balzo verso il territorio dove riposano – tanto per restare in tema – gli oggetti di culto cinematografici degni di venerazione atemporale. Tuttavia ci consegna un nome, quello di Gregorio Graziosi, da annotare con cura per il futuro.

Daniele De Angelis

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