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Tusk

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VOTO: 4.5

Homo Homini Trichechus

Duole dirlo, ma l’enigma Kevin Smith è probabilmente arrivato al definitivo scioglimento. Simpatico cineasta capace di dividere tra fans indefessi e scettici della seconda ora – diciamo dal pessimo Generazione X (1995), quasi un instant remake dell’isolato cult d’esordio Clerks (1994), girato da Smith a soli ventiquattro anni dopo incredibili avventure – con quest’ultimo Tusk ha confezionato una delle pellicole più desolanti della sua alterna carriera. Presentato nella sezione “Mondo Genere” del Festival Internazionale del Film di Roma 2014 (come c’è arrivato? Chi l’ha scelto?), Tusk dovrebbe inserirsi in quel filone del cinema horror già palesemente sul viale del tramonto definito torture porn. Dovrebbe, perché Smith, da sempre attento alle regole non scritte del marketing, evita con accuratezza di calcare troppo la mano sul gore, rimanendo in pericoloso bilico tra il desiderio di fare un film veramente di genere e virare sulla demenzialità pura con annesso messaggio incorporato (sic!). Così Tusk finisce con il sembrare il filmetto di un teen-ager che ha visto The Human Centipede (il primo, datato 2009) di Tom Six – piccolo (s)cult del cinema di serie Z in cui uno scienziato pazzo sogna di creare un millepiedi umano collegando carnalmente diversi individui – rimanendone a tal punto folgorato da realizzarne un’innocua versione quasi del tutto prosciugata di qualsiasi elemento di perversione. Al posto del millepiedi c’è però un tricheco, nonché una sola persona ad essere sottoposta all’esperimento di “trasformazione”.
Ciò che più irrita del film è la solita, imprescindibile componente moralistica che spessissimo affligge il cinema di Smith, il quale si spaccia per gioioso anarchico quando al contrario è un conservatore pure assai poco illuminato. Imbrocca qualche buono spunto narrativo – non è il caso di Tusk, purtroppo – e lo getta miseramente alle ortiche per un desiderio conscio di rientrare di corsa nei ranghi, come accaduto in Dogma (1999) – che di blasfemo aveva più o meno solo le premesse narrative – oppure in Zack & Miri – Amore a primo sesso (2008), dove l’escursione nel mondo del porno diventava un pretesto per confezionare una love story degna di un serial preserale in onda su Mediaset. In Tusk lo stronzetto di turno a trovare (in)degna punizione è un giovane e cinico podcaster, Wallace Bryton, il quale, assieme ad un socio (un irriconoscibile Haley Joel Osment, il bambino de Il sesto senso), specula sulle disgrazie altrui per farsi quattro risate sul loro sito internet, è talmente ossessionato dal successo da non riconoscere il vero amore ed è sprezzante verso qualsiasi tipologia di prossimo incontri. Justin Long, l’attore che lo interpreta, recita molto meglio da tricheco piuttosto che al naturale, mentre l’ottimo Michael Parks, eccellente interprete ormai confinato da Smith in parti da esaltato come nel sopravvalutato, artificiosamente nichilista Red State (2011), profferisce a più riprese la grande lezione etica del film: l’essere umano tendenzialmente è assai peggiore delle bestie che lo circondano. Dopo questa verità scolpita nella pietra – ma il riuscire a piangere può rappresentare una parziale occasione di riscatto per l’umanità, come testimonia il finale del film – non resta altro da fare che chiedersi senza troppo arrovellarsi la mente cosa sarebbe potuto diventare Tusk in mani meno omologate. Forse un guilty pleasure da gustarsi soli in casa dopo mezzanotte, restando sorpresi da un cinema che non si pone limiti di espressione. Al contrario il Tusk di Smith nasce proprio da uno stridente controsenso di partenza, quello cioè di girare un’operina in teoria parecchio “off” sperando di farla rientrare nei circuiti commerciali maggiori.
Oltre alla performance di Parks e al cameo di un truccatissimo e divertito – ma non troppo divertente – Johnny Depp nei panni di un improbabile investigatore francofono, restano da salvare in Tusk solamente una blanda ma simpatica satira sulle differenze tra canadesi e statunitensi – l’azione si svolge nella provincia canadese del Manitoba, mentre Wallace è un losangelino in trasferta – e le solite battute cinefile usate alla stregua di captatio benevolentiae da Smith, il quale si permette pure di citare un must assoluto come Il grande Lebowski dei fratelli Coen. Si parla molto, in effetti, durante Tusk; quasi si tentasse di riprodurre l’arguzia di un Quentin Tarantino in formato molto, ma molto, ridotto o in pessimo stato di forma. E rinnovare il già menzionato torture porn a colpi di chiacchiera non appare davvero l’idea del secolo.
Aspettiamo che Kevin Smith rientri nel seminato con il terzo, annunciato, capitolo della saga Clerks per tornare ad illuderci sul suo effettivo valore. Ma intanto Tusk resta una macchia di quelle particolarmente dure da venir via…

Daniele De Angelis

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