Sguardi trasversali
Una delle sezioni che maggiormente ha incuriosito pubblico e critica al 34° Torino Film Festival è proprio Onde, dove da sempre viene dato ampio spazio al cinema “del domani”, fatto da giovani autori che già hanno ottenuto diversi riconoscimenti nell’ambito di altri festival e che non disdegnano anche qualche coraggiosa sperimentazione all’interno delle loro opere. Nell’ambito di questa sezione, senza dubbio uno dei lungometraggi più controversi è il portoghese O Ornitólogo, diretto dal giovane e pluripremiato João Pedro Rodrigues che da sempre, con il suo cinema, ha cercato di creare nuovi linguaggi, inserendo nei suoi lavori spesso e volentieri anche importanti componenti autobiografiche.
Ci troviamo in Portogallo, sulle sponde di un remoto fiume a nord della nazione. L’ornitologo Fernando – abituato a lavorare in solitaria – è alla ricerca di alcuni esemplari di cicogne nere in via di estinzione. Durante il percorso, però, la sua canoa si ribalta ed il ragazzo viene soccorso da due pellegrine cinesi sulla via per Santiago de Compostela, che, tuttavia, si riveleranno ben presto sadiche e pericolose. Una volta fuggito da loro, però, Fernando smarrirà la strada ed inizierà una lunga avventura nel bosco, nonché un lungo percorso di crescita interiore. A tutti gli effetti, una sorta di Sant’Antonio postmoderno. Inizialmente miscredente, dopo vari incontri durante il suo cammino, scoprirà ben presto la fede e cambierà il suo nome, appunto, in Antonio.
Al di là del significato intrinseco dell’opera stessa, O Ornitólogo colpisce fin da subito per la particolare messa in scena adottata dal regista. Come già è stato detto, il protagonista è sì un Sant’Antonio postmoderno, ma è anche vero che – per la commistione di generi e di tecniche di realizzazione – l’intero lungometraggio in sé tenta a sua volta di superare – per quanto possibile – il postmoderno stesso, portandolo quasi all’estremo, senza paura di sbagliare o di finire sopra le righe. Vediamo perché.
Inizialmente contemplativo ed iperrealistico, questo ultimo lavoro di Rodrigues ben presto sembra diventare un horror, per poi trasformarsi nuovamente in un vero e proprio romanzo di formazione, che nulla ha in realtà a che vedere con l’horror stesso. Durante tutta la durata, inoltre, non poche sono le suggestioni visive presentateci. Basti pensare, ad esempio, ai demoni presenti nella foresta che – con i loro costumi variopinti – di notte si dedicano a singolari rituali danzanti. E poi c’è il metacinema. Alla settima arte vengono fatti continui riferimenti fin dai primi minuti, in cui l’atto del vedere diventa atto centrale all’interno della narrazione stessa e resta tale fino alla fine. Vediamo spesso Fernando osservare la natura e gli animali attraverso il suo binocolo (e succede dunque anche a noi stessi di vedere attraverso il binocolo), così come capita a Fernando stesso di venire osservato. Azioni, queste, che volendo stanno a simboleggiare anche lo sguardo di un’entità, o per meglio dire di Dio, osservatore silente di ciò che accade sulla Terra.
Fatta eccezione per veri e propri scivoloni da un punto di vista prettamente estetico – primo fra tutti, il finale stesso del film, in cui Fernando/Antonio ed il suo amico Tommaso si recano in pellegrinaggio a Padova con un’improbabile canzone da gita di scout in sottofondo – e per una leggera, ma non eccessivamente “fastidiosa” presunzione alla base di tutto, il coraggio di sperimentare dimostrato qui da Rodrigues ha dato vita ad un prodotto indubbiamente interessante, di quei prodotti che raramente capita di vedere in giro, se non nell’ambito di festival cinematografici. Se mai si sperimenta, mai si crea qualcosa di nuovo e mai si va avanti. Questo è poco ma sicuro. E Rodrigues, fortunatamente, l’ha fatto, qui, anche con una certa cognizione di causa.
Marina Pavido