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No Time to Die

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VOTO: 6.5

Una trama deludente per l’ultimo 007 di Daniel Craig

Cercando di godere finalmente una vita normale, James Bond (Daniel Craig) si nasconde in Italia con la sua amante Madeleine Swan (Léa Seydoux). Nonostante i buoni propositi, il passato non tarda a farsi vivo, non solo per l’agente segreto più famoso del mondo ma anche per la sua compagna che, come ci viene spiegato in una bellissima sequenza iniziale, nasconde anch’ella terribili segreti. Sfuggiti per un pelo ai loro sicari, la coppia si divide: Bond non è più sicuro di quale sia il gioco che sta giocando la sua Madeleine. Alcuni anni dopo la rediviva Spectre, ancora guidata da Ernst Blofeld (Christoph Waltz), ruba un virus letale da un laboratorio dell’MI5 a Londra, portandone con sé il creatore, il professor Valdo Obruchev (David Dencik). Costui, invece di consegnare l’arma ai terroristi, la cede all’enigmatico Lyutsifer Safin (Rami Malek), che la brama per una sua vendetta personale e, forse, per motivi perfino più sinistri. Prima che Bond venga contattato dalla CIA, desiderosa di risolvere la faccenda, c’è tempo per vedere entrare in scena anche Nomi (Lashana Lynch) la donna che, in sua assenza, ha potuto “ereditare” il prestigioso codice di 007. Reintegrato momentaneamente al servizio segreto di Sua Maestà dal suo superiore Q (Ralph Fiennes), per l’agente con “licenza di uccidere” comincia la corsa contro il tempo per individuare il nascondiglio segreto di Safin, comprenderne gli scopi, salvare l’amata Madelaine e, già che ci siamo, il mondo intero.
Cary Joji Fukunaga (bellissima la sua stagione della serie tv True Detective del 2008), regista e qui anche co-sceneggiatore, ci consegna No Time to Die, ovvero l’avventura con cui Daniel Craig si congeda dalla saga spionistica, firmando una pellicola elegante e dalla fattura sontuosa, tecnicamente impeccabile da ogni punto di vista. Appassionante e divertente nella prima parte, la trama purtroppo si perde sciaguratamente strada facendo. L’attesa per questo capitolo conclusivo, rimandato a più riprese per oltre un anno causa pandemia Covid, è stata piagata da numerose polemiche, soprattutto dopo che si è venuto a sapere che il codice 007, come in effetti si vede, è stato “usurpato” da un’altra agente doppio zero. Per qualcuno questa scelta è stata fatta per strizzare l’occhio agli attuali movimenti femministi, intransigenti e radicali nei confronti delle figure maschili in cui vedono incarnarsi l’odiato “patriarcato”. Lo stesso Fukunaga, quando in un’intervista ha detto che la versione classica della serie, interpretata da Sean Connery, andava aggiornata perché quel Bond vi appariva come “uno stupratore”, oltre ad essere palesemente ingiusto non ha certo aiutato a sopire le preoccupazioni del pubblico. Oppure era una studiata strategia per far parlare di sé, sapendo di spararla grossa. Vista la piattezza del personaggio di Nomi, uno degli elementi meno raffinati della vicenda, il sospetto potrebbe comunque avere una sua fondatezza: una donna di colore (e fin qui ben vengano esempi femminili forti e meno stereotipati che in passato), che non ha un reale impatto sugli eventi, ma che rivaleggia in letalità con Bond, lo prende per i fondelli quando capita e, soprattutto, non cede neanche per un istante al suo proverbiale fascino. Salvo poi mostrargli rispetto e accompagnarlo nell’assalto finale alla fortezza di Safin. Purtroppo qui arrivano le note dolenti: il terzo atto di No Time to Die non sembra più 007, ma si trastulla con un infinito scontro a fuoco, dove Daniel Craig, da solo, abbatte decine e decine di militari avversari, immagini che abbiamo visto in qualche “action movie” sopra le righe degli anni ‘80. O forse nelle scene di un moderno videogioco sparatutto. Arrivati alla sfiancante durata di quasi tre ore (ormai a Hollywood pare svanita la capacità di raccontare in meno di 120 minuti), condite da stucchevoli dialoghi melodrammatici, dobbiamo assistere ad un epilogo che peraltro in tanti avevano già intuito da un pezzo. La delusione per una storia banale, narrata in modo convoluto, prolisso, è ancora più forte osservando gli indubbi meriti realizzativi della pellicola: sparatorie, inseguimenti e scenografie sono curate con apprezzabile minuzia. La suggestiva fotografia di Linus Sandgren descrive meravigliosamente le diverse fasi, luminosa dove serve, cupa ed evocativa altrove. Ma il supercattivo di Rami Malek, troppo fumettoso perfino per un film di Bond, e un finale disastroso rovinano il commiato di un personaggio tanto celebre.

Massimo Brigandì

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