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True Detective

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Svegliarsi da un sogno

Pare quasi paradossale (ri)trovare tanto Cinema, quello con la maiuscola, quel cinema inteso come contenitore, culla, istanza creatrice dell’immaginario collettivo, proprio in una serie televisiva. Quando sembravano ormai lontani, irripetibili i tempi in cui Twin Peaks si divertiva a scardinare, sovvertire le regole del piccolo schermo con dinamiche che da sempre gli erano rimaste estranee, precluse, proibite, ecco nascere dalla mente da romanziere di Nic Pizzolatto un’opera che fa dell’immaginario cinematografico la sua stessa ragione d’essere, punto di partenza, terreno di deflagrazione, base di lancio per nuove, inedite mete. Allontanandosi coraggiosamente dalle logiche televisive, dai loro tempi frenetici, dal valore effimero delle immagini, dello sguardo, ecco allora True Detective, l’ultimo prodotto della rete via cavo americana HBO, impadronirsi pienamente della visione domestica, ammaliare, catturare masse di telespettatori totalmente impreparati a una operazione di questo tipo, completamente disarmati davanti a quello che (forse) il cinema non sapeva più dargli da tanto, troppo tempo. Ha il valore della narrazione epica ciò che scaturisce dagli otto episodi da sessanta minuti ciascuno della serie più significativa degli ultimi venti anni. Hanno la consistenza degli archetipi le due entità, i due compagni di lotta, che vagano in un mondo devastato, apocalittico, tra scenari che ne proiettano i fantasmi, le allucinazioni, le paure. Assieme alla mediocrità da middle class del detective Marty Hart (un impeccabile Woody Harrelson), sono, allora, soprattutto, i logorroici,  ipnotici monologhi del suo compagno, il detective Rust Cohle, interpretato da un disarmante, sfatto e inarrivabile Matthew McConaughey, che, sin dalla prima puntata, monopolizzano la visione, a nascondere nei loro meandri nichilisti, cinicamente farneticanti, la consapevolezza tutta metalinguistica di un genere che è già dato come assunto, che è emanato come leggendario, mitico.
Siamo alla presenza di strutture, personaggi, luoghi già assimilati, già amalgamati in un’abile quanto suggestiva operazione di facciata, nient’altro che un punto di partenza che, come tale, non può che essere presto superato da temi e motivi ben più impegnativi, ben più distanti da una (pur necessaria e fondamentale) logica di genere.
É quindi proprio quell’universo, l’immaginario potentissimo del thriller poliziesco, ad essere destabilizzato, stravolto, fatto deflagrare in favore di una dimensione quasi metafisica. Ecco allora che True Detective acquista una valenza esistenziale, ultimo baluardo di un’umanità agli sgoccioli, epica disastrata dell’eterna, quasi definitivamente persa, lotta tra Bene e Male. Così la coppia di poliziotti, alcolizzato, medio borghese, infedele l’uno, depresso, metodico, razionalmente monastico l’altro, uscirà ben presto dalla propria gabbia archetipica, dal tipo cinematografico dello sbirro, per intraprendere un viaggio dalle mille sfaccettature in cui le identità sono maschere da lasciare lungo la strada per l’abbandono definitivo della finzione, alla ricerca di un’illuminante, nuova verità. Per farlo dovrà passare tra gli incastri di una trama gradualmente avvincente, nel lugubre climax di una caccia disperata, frustrante, ostica a un serial killer multiforme che disorienta, fugge, si nasconde tra le pieghe (e le piaghe) più oscure di una società che lo protegge, che lo copre, che gli è complice. L’occulto si lega alle logiche del potere, il Male, il “Re in Giallo”, nella sua mortifera, leggendaria città di Carcosa, si fa motore degli eventi, personificazione sfuggente del mito.
Un mito che si fa realtà in un viaggio nero di formazione, in una parabola di redenzione, in un percorso (iniziatico e terribile) di consapevolezza che passa per una terra, la Lousiana del profondo sud, che è suggestiva proiezione dei suoi personaggi, dell’angolo più buio dell’animo umano, coprotagonista di un dramma dantesco, affresco degli ultimi giorni di un’umanità boccheggiante.
Con l’abilità di un pittore cupo e navigato Cary Joji Fukunaga, regista di tutti gli episodi della prima serie (ulteriore consolidamento di una componente “autoriale” fortissima), ci immerge in una visione costante e ferrea nelle sue atmosfere lugubri, di un realismo allucinato, di un onirismo scarno e disperato, in spazi intrisi di un suggestivo pessimismo da cui è bandita la paura del silenzio, del tempo (un piano sequenza di quasi dieci minuti non si vede spesso in televisione), della lentezza.
La soluzione, la Verità sta al di là di un intreccio che è una malattia del tempo, un incancrenimento dei ricordi che scardina la linearità degli eventi, oltre un loop temporale fatto di flashback continui che, una volta decifrati, risolti, permetteranno ai protagonisti (e, insieme, al pubblico) di entrare, finalmente, nel presente, per risolvere, finalmente, un mistero lungo vent’anni e affrontare, finalmente, “il mostro alla fine del sogno”, raggiungere la salvezza in un mondo sempre meno mitico e sempre più reale.
Tra scenari suggestivi e deprimenti, tra trovate registiche inventive e personaggi sopra le righe, True Detective non è nient’altro che la storia di un’apocalisse ancora da venire, di una fine per l’ennesima volta rimandata, di una visione, fortunatamente, ancora salva dall’omologazione e dall’abbrutimento dei nostri tempi.

Mattia Caruso

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