Cattivi pensieri
In ogni festival che si rispetti c’è sempre quel film destinato a dividere il pubblico. Non fa eccezione il Bif&st, che tra le pellicole più scomode e controverse della line-up della sua 12esima edizione ha presentato alla platea barese l’opera prima di Vincent Le Port. Reduce dall’anteprima alla 60esima Semaine de la Critique del 74° Festival di Cannes, Bruno Reidal – Confessions of a Murderer è approdato alla kermesse pugliese nel concorso della sezione “Panorama Internazionale”, laddove ha nel bene per alcuni e nel male per i restanti spettatori lasciato un segno tangibile del suo passaggio sullo schermo del Teatro Petruzzelli.
Quello firmato dal cineasta francese del resto è uno di quei film al quale è impossibile restare indifferenti, con l’incipit che mostra il protagonista compiere l’efferato delitto del quale si è macchiato e per il quale, immediatamente dopo, deciderà di costituirsi. È il 1905, anno cruciale per la separazione tra Stato e Chiesa in Francia. Dopo aver assassinato un ragazzo, il giovane seminarista Bruno Reidal si consegna subito alle autorità. In carcere, si trova di fronte a una commissione di tre medici, che lo interrogano per settimane cercando di comprendere le ragioni del suo gesto. Nel tentativo di far luce sugli eventi e sulle anomalie che potrebbero aver condotto Bruno a compiere una simile atrocità, lo costringono così a scrivere la storia della sua vita e a ripercorrere il suo passato.
Da quei fatti realmente accaduti e nel corso della detenzione, terminata con la morte in manicomio a soli trent’anni, sono rimaste agli atti duecento pagine di memorie, quindici delle quali sono diventate il tessuto narrativo dalle quali Le Port ha tratto lo script del suo debutto sulla lunga distanza. Da qui ha preso forma e sostanza un film che non vuole fare sconti a nessuno, nel quale non c’è il fuoricampo a tutelare lo spettatore rispetto a certe immagini macabre. Al contrario, l’orrore viene mostrato in tutta la sua brutalità, con la cronaca della decapitazione della vittima a togliere qualsiasi dubbio sull’identità del carnefice e sull’atrocità del suo gesto. Di conseguenza viene meno la scissione tra colpevolisti e innocentisti, per lasciare spazio allo scavo nei trascorsi del mostro di turno che ci riporta dall’infanzia sino al delitto, per venire a conoscenza del perché si è arrivati a quel momento. Si assiste così a un lungo interrogatorio, che riporta alla mente La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, ma con la sostanziale differenza che nel film di Le Port, il protagonista si confessa ma mai con l’intenzione di difendersi.
Per farlo l’autore ci scaraventa nella sua mente senza alcuna rete di protezione. Emergono lentamente e inesorabilmente i tasselli di un mosaico che non lascia scampo, che consente al fruitore di rimettere insieme i pezzi della travagliata, drammatica e complessa vicenda esistenziale di Reidal, vittima di abusi, di una crisi identitaria e di una condizione di isolamento sociale che lo ha reso ciò che è. Il risultato è un romanzo di deformazione calato in un period-drama che va in direzione opposta e contraria rispetto alla ricetta classica. A metà tra Bresson e Haneke, Bruno Reidal – Confessions of a Murderer non è un film concepito per assecondare il pubblico, ma per scuoterlo pesantemente. Volutamente gelida e ostica, formalmente e narrativamente rigorosa nella sua messa in quadro e scrittura asettica e chirurgica, quella firmata dal cineasta francese è un’opera destinata solo a chi è disposto ad accettarne le precise e irrevocabili regole d’ingaggio. Non ci sono vie di mezzo, c’è solo un dentro o fuori.
Francesco Del Grosso