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Nightshade

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VOTO: 8

A caro prezzo

Tarik è un bambino di 11 anni che aiuta suo padre a trasportare immigrati clandestini nei Paesi Bassi. Quando si verifica un incidente, Tarik ha la possibilità di ottenere da lui il riconoscimento che ha sempre desiderato, ma a caro prezzo – la perdita della propria innocenza.
Nella sinossi e nella sua trasposizione, Nightshade svela quali siano i geni drammaturgici presenti nel proprio DNA filmico, oltre alle tematiche che ne vanno ad alimentare e stratificare il racconto. Quest’ultimo potrebbe a una prima lettura apparire come il classico romanzo di (de)formazione o coming of age malavitoso che affonda le proprie radici nel sempre più attuale e discusso argomento del giorno, ossia l’immigrazione clandestina. Un bagaglio, quello che si porta dietro la pluripremiata opera breve di Shady El-Hamus, fresca vincitrice del premio per il miglior film della sezione “Fiction Internazionale” del Saturnia Film Festival 2018 e del premio della giuria studenti del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina 2018, che potrebbe fare storcere il naso del fruitore, convinto di trovarsi a fare i conti – sulla carta – con l’ennesima operazione audiovisiva sul suddetto tema. La sensazione e al contempo l’idea pregiudiziale è destinata, però, a svanire già dopo una manciata di minuti dal play per via di alcune scelte operate dall’autore tanto in fase di scrittura quanto in quella di messa in quadro.
Il motore portante e la forza dell’opera breve del cineasta olandese risiedono entrambe nel punto di vista con il quale storia, personaggi e regia prendono forma e sostanza nello script e sullo schermo. La prospettiva dalla quale osserviamo e ascoltiamo tutto è quella di un adolescente seduto sul sedile anteriore a lato del guidatore (il padre) e lo resterà per l’intero arco temporale del racconto, vale a dire quei quattordici e inesorabili minuti d’inferno notturno che circoscrivono il racconto dell’odissea umana del giovane protagonista, costretto dal genitore a trasformarsi nel testimone oculare, nel complice e allo stesso tempo nell’aguzzino di turno. Il resto, ossia il carico di carne da macello umana trasportata e ammassata nel cabinato posteriore resterà senza voci e senza volti, lasciati volutamente fuori campo per sottolineare l’anonimato di coloro che giorno e notte fuggono per disperazione dalla povertà e dalla guerra, ma anche per vivere frame dopo frame i mutamenti continui dello stato d’animo del protagonista.
Ma i meriti più grandi di Nightshade sono quelli di non speculare sul tema e soprattutto non spettacolarizzare mai il dolore, nemmeno quando sullo schermo uno sguardo voyeuristico e senza freni avrebbe potuto trovare terreno fertile. Una tentazione, questa, nella quale è davvero facile cadere e che il cineasta olandese, a differenza di moltissimi altri colleghi più o meno noti di tutte le latitudini, è riuscito a rispedire al mittente.

Francesco Del Grosso

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