Metterci la faccia
Quella in cabina di regia di My Name is Aseman è una combo davvero interessante, che non a caso ha dato forma e sostanza a un’opera meritevole di attenzioni, le stesse che sta ricevendo nel circuito festivaliero, a cominciare dall’anteprima mondiale al Tirana International Film Festival 2023, laddove ha ricevuto il premio per il miglior cortometraggio. Alla direzione a quattro mani dello short in questione, presentato recentemente al 7° Pop Corn Festival del Corto in quel di Porto da Santo Stefano dopo i passaggi in altre prestigiose vetrine come “Alice nella Città” alla Festa del Cinema di Roma e il Festival di Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina di Milano, troviamo una coppia davvero assortita formata dal regista di L’uomo sulla strada, Gianluca Mangiasciutti, e da quello di pellicole del calibro di Disappearance, Until Tomorrow e del più recente Kafka a Teheran, ossia Ali Asgari.
La proiezione all’ultima edizione della kermesse toscana è stata l’occasione per vedere in azione i due cineasti alle prese con una storia scritta da Asgari, quella che ha come protagonista Aseman, una giovane ragazza afgana, timida e riservata, che vive in Italia. Quando le verrà data l’opportunità di mostrarsi al mondo attraverso un’intervista dovrà decidere quanto svelare di se stessa. La macchina da presa del duo segue la donna mentre percorre il tragitto che la porterà al luogo della registrazione, non prima di avere incontrato un corteggiatore. Dal dialogo tra i due emergono i primi dettagli sull’esistenza di Aseman, il cui volto è parzialmente coperto da una mascherina, da lei indossata per proteggersi dalla minaccia pandemica ancora presente.
My Name is Aseman è una “finestra” che si apre e chiude sulla vita della protagonista che si consuma narrativamente e drammaturgicamente in una manciata di giri di lancetta, ultimo dei quali in piena zona Cesarini cambia totalmente le carte in tavola con un twist efficacissimo che spalanca le porte a un messaggio dal peso specifico rilevante. La porzione della timeline che lo precede è costruita in funzione e in preparazione di questo, esattamente come fatto dal collega Niccolò Corti per il suo Non piangere. Motivo per cui semina indizi e getta le basi di ciò che avverrà nel finale, con gli autori che stanno molto attenti a centellinare il necessario per evitare che il suddetto epilogo si disinneschi prima di implodere al momento giusto. In questo Asgari e Mangiasciutti sono stati bravi a non commettere errori o passi falsi che avrebbero depotenzializzato l’onda d’urto dei fotogrammi conclusivi. Del resto i rispettivi lavori dietro la macchina da presa sulla breve e lunga distanza, improntati per entrambi sulla commistione e l’equilibrio tra le tonalità, le atmosfere cangianti, i registri e i generi chiamati in causa, hanno rappresentato un bagaglio sul quale poter contare anche in quest’opera realizzata a quattro mani. Ad aiutarli in questo il montaggio di Filippo Orru e la fotografia di Alberto Marchiori, che a loro volta si fanno strumenti e veicoli insieme alla regia del suddetto modus operandi.
Dove al contrario il cortometraggio della coppia italo-iraniana perde posizioni è nella costruzione del flusso emotivo che segue una traiettoria lineare quando invece le esigenze erano altre. L’architettura del racconto e la progressione degli eventi che accompagnano lo spettatore verso il finale, per caratteristiche genetiche, avrebbero necessitato di una salita graduale della temperatura emotiva, raggiungendo un picco in tal senso in prossimità del colpo di scena che precede i titoli di coda. Questo per quanto ci riguarda è, insieme alla recitazione altalenante e non sempre a fuoco degli interpreti, il tallone d’Achille di un’opera che lascia un po’ di amaro in bocca e dal quale era lecito aspettarsi molto di più visti i registi scesi in campo per realizzarla.
Francesco Del Grosso