Sciuscià 2.0
Obiettivo puntato su La Paz. Situata sull’Altipiano delle Ande e indicata spesso quale metropoli più alta del mondo, la capitale della Bolivia aveva già fatto capolino sullo schermo, di recente, nell’epilogo di Puan, brillante lungometraggio diretto dagli argentini María Alché e Benjamín Naishtat. La ritroviamo ora, coi suoi inconfondibili dislivelli topografici (e sociali), quale protagonista aggiunta del film altrettanto bello diretto dal giovane cineasta boliviano Vinko Tomicic: El Ladrón de perros (Ladro di cani).
Frutto di una coproduzione internazionale che ha visto coinvolta anche l’Italia, attraverso la Movimento Film di Mario Mazzarotto, El Ladrón de perros è in programma al Giffoni Film Festival nella sezione Generator +16 proprio venerdì 26 luglio, alle ore 10, presso la sala Truffaut e con l’autore presente all’anteprima italiana; reduce, peraltro, il regista, dalla calorosa accoglienza tributata nelle scorse settimane al proprio lavoro dal pubblico del Tribeca Film Festival a New York e del Festival di Guadalajara in Messico.
Del resto il suo è un film che sa parlare al cuore ma anche alla testa. E lo fa lasciando che un tormentato ritratto adolescenziale combaci coi tanti problemi irrisolti di una società boliviana, in cui le differenze di classe si fanno pesantemente sentire. Dando poi vita a una “geografia urbana” che, come e persino più di altre metropoli latinoamericane, finisce per rifletterne le profonde, intime contraddizioni.
Giovanissimo protagonista di El Ladrón de perros è per l’appunto Martín, impersonato con grandissima dignità e dedizione dal sorprendente Franklin Aro Huasco. Orfano, bullizzato a scuola per le sue umili origini, accudito per quanto possibile da un’anziana domestica, il ragazzo cerca comunque di mantenersi da solo praticando un mestiere ancora molto gettonato nelle piazze principali della città, ma che nella memoria storica di qualsiasi italiano rimanda subito ad epoche passate e, cinematograficamente parlando, alla gloriosa stagione del Neorealismo: il lustrascarpe.
Proprio in merito a tale attività avvengono gli incontri dello “sciuscià andino” con quel sarto attempato, il Signor Novoa, uomo solitario, riservato e schivo, che a parte il lavoro sembrerebbe interessarsi solamente a un cane di cui si prende cura da anni. L’esemplare in questione, animale di razza, diverrà ben presto e in circostanze a dir poco anomale il ponte tra lui e il ragazzo, la cui curiosità nei confronti di quell’uomo già anziano può apparire all’inizio un po’ enigmatica, per rivelare poi ragioni profonde alla fine del racconto.
Oltre al così vivido e sfaccettato quadro sociale, è difatti un gioco tra i personaggi principali tutto basato sul non detto, su rivelazioni più o meno sofferte, su mancanze famigliari che si cerca in qualche modo di compensare, ciò che permette a turbamenti esistenziali e ad altre, mai effimere suggestioni di addensarsi sull’interessante architettura diegetica del lungometraggio. L’impronta più forte e duratura la lasciano comunque gli interpreti. A duettare nei panni del sarto col giovane Franklin Aro Huasco, piccola rivelazione del film, è peraltro un mostro sacro del cinema sudamericano, il sempre intensissimo Alfredo Castro, attore cileno già protagonista di alcune tra le opere cinematografiche più significative di Pablo Larraín. E pure qui il suo naturale carisma esce fuori sin dalle prime inquadrature.
Stefano Coccia