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Moschettieri del Re

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VOTO: 5.5

Tutti per uno…Molti anni dopo

Tutti noi, chi più chi meno, abbiamo avuto modo di affezionarci al celebre romanzo di Alexandre Dumas, “I Tre Moschettieri”, e alle sue successive, numerose trasposizioni cinematografiche e televisive. Se, dunque, in Italia, non si è fatta attendere – già nel lontano 1963 – una sorta di “risposta” nell’ambito della settima arte, che ci raccontasse la sua singolare versione dei fatti con la commedia I Quattro Moschettieri, per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia, ecco che uno dei nomi più in vista della cinematografia nostrana contemporanea – ossia Giovanni Veronesi – si è voluto a sua volta liberamente ispirare al capolavoro di Dumas, dando vita al suo Moschettieri del Re e saltando a pie’ pari ciò che è accaduto nel seguito originale Vent’Anni dopo, mettendo in scena le bizzarre vicende dei quattro celebri moschettieri (per l’occasione con i volti di Pierfrancesco Favino, Sergio Rubini, Rocco Papaleo e Valerio Mastandrea), i quali, ormai ufficialmente “in pensione”, vengono ingaggiati nuovamente dalla regina Anna d’Austria (Margherita Buy), al fine di arrestare la sanguinosa strage degli Ugonotti iniziata dallo spietato cardinale Mazzarino (Alessandro Haber). Se pensiamo, dunque, al presente prodotto come a qualcosa che vuol andare oltre il semplice divertissement, mettendo in scena, in realtà, il tema dell’elaborazione e del superamento di un lutto da parte dei bambini grazie al potere dell’arte e della fantasia, ecco che la cosa si fa immediatamente più appetibile. Se non altro per vedere come il tutto può essere gestito. Con premesse così allettanti, ma con altrettante imperfezioni al suo interno, dunque, ecco che questo Moschettieri del Re è indubbiamente un film che dividerà parecchio sia pubblico che critica, ma che, allo stesso tempo, ha dalla sua la volontà di guardare oltre, di voler superare alcuni dettami che sembrano imperare ormai da anni nell’ambito delle grandi produzioni nostrane, mostrando, insieme a una certa (e in questo caso giustificata) ambizione, anche una sorta di ingenuità e di candore di fondo. A dispetto (e qui vogliamo essere cattivi) di gran parte della filmografia di Giovanni Veronesi.

Fin qui, dunque, tutto bene. Almeno sulla carta. Come già affermato, però, il presente lungometraggio ha non pochi difetti e lacune, soprattutto per quanto riguarda lo stesso script. Al di là, infatti, dei dialoghi volutamente “terra terra”, al di là di espedienti comici spesso deboli e talvolta prevedibili, vi sono non pochi elementi tirati in ballo (prima fra tutti, la malattia di Atos) che poi, magicamente, vengono abbandonati a sé stessi senza essere mai più ripresi. Stesso discorso vale per la conclusione del racconto (avvenuta in un momento apparentemente del tutto casuale) e per il successivo ribaltamento, in cui viene messo in primo piano un bambino e tutto il suo immaginario, all’interno del quale, però, ben pochi e soddisfacenti riscontri si trovano con la realtà, soprattutto a causa dell’insufficiente sviluppo e approfondimento dei fatti. Se, tuttavia, prendiamo in considerazione l’idea in sé, possiamo renderci conto quanto essa possa risultare vincente all’interno di un cortometraggio, ma pericolosamente inadeguata nel momento in cui si è costretti ad avere a che fare con durate più “standard”. E la stessa tecnica del lungometraggio a meccanismo, di fatto, è tra le più difficili da realizzare in modo soddisfacente. A meno che non si pensi a Fritz Lang e al suo bellissimo La Donna del Ritratto (1944). Ma questa, ovviamente, è un’altra storia.

Marina Pavido

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