Senza confini
«On aime sa mère presque sans le savoir, et on ne s’aperçoit de toute la profondeur des racines de cet amour qu’au moment de la séparation dernière» (da “Fort comme la mort”, 1889 ndr). Queste parole di Guy de Maupassant emergevano sul nero fotogramma iniziale di J’ai tué ma mère, l’opera prima con cui Xavier Dolan ha vinto Prix Regards Jeune all’edizione 2009 del Festival di Cannes. Rispettando la volontà del regista di non creare parallelismi con quel lungometraggio, possiamo dirvi che in Mommy torna a scavare il rapporto madre-figlio, una relazione che non ha mai abbandonato, sfiorandola anche di striscio, nelle pellicole intercorse fino a quest’ultima.
Lasciando parlare Dolan: «Se c’è un tema, anche solo uno che conosco meglio di qualsiasi altro, uno che m’ispira incondizionatamente, e che amo sopra a tutti gli altri, è certamente mia madre. E quando dico mia madre, intendo LA madre in senso lato, la figura che rappresenta. Perché è su di lei che torno sempre. E’ lei che voglio vedere vincere la battaglia, è per lei che voglio inventare problemi che lei possa avere il merito di risolvere, è attraverso di lei che mi pongo delle domande, è lei che voglio sentire gridare quando non ci siamo detti una sola parola. [..] Ai tempi di J’ai tué ma mère, sentivo di voler punire mia madre. Da allora sono passati solo cinque anni, e credo che per mezzo di Mommy, stia cercando di farla vendicare» (dalle note di regia).
Chi non conosce la sua poetica potrebbe pensare che si tratta di un argomento trito e ritrito e sorge spontanea la domanda: cosa c’è ancora da dire? Come si può rappresentare un tòpos senza trasmettere l’idea del già visto? Tanto più con quest’ultima opera, probabilmente la più compiuta, l’artista canadese risponde a tutto ciò: affondando gli obiettivi della macchina da presa, crea un mo(n)do umano ed estetico tutto personale, mai scontato, ma, al contempo, dal gusto universale perché trasmette emozioni che toccano tutti in modo potente e viscerale.
Le prime note di “Childhood” di Craig Armstrong ci immergono in un’atmosfera i cui toni non sono quelli che ci si aspetterebbe: sin dai primi minuti accade qualcosa che ci fa percepire che persona sia la madre, Die (Anne Dorval), merito anche di marcature stilistiche ben studiate, ma mai forzate. In seguito a una particolare reazione di suo figlio Steve (Antoine-Olivier Pilon) all’interno del centro di detenzione preventiva in cui alloggiava, la donna è “costretta” a portarlo a casa e a occuparsene a tempo pieno. Il ragazzo ha il deficit di attenzione oppositivo provocatorio, non è semplice rapportarsi, è lei stessa ad affermarlo raccontandosi alla vicina di casa , Kyla (bravissima Suzanne Clément), «quando parte di testa devi scappare perché è brutto forte». Passo dopo passo, il cineasta canadese costruisce una molla perfetta, in cui madre e figlio si attraggono, respingono, a tratti sembra che abbiano paura l’uno dell’altro, ma si divertono anche… Steve vorrebbe dimostrare a sua madre di poter contare su di lui, ma ci sono dei limiti invalicabili, al di là della sua volontà.
In Mommy c’è una presa di coscienza del “deficit” – declinato in diverse sfumature (tra cui il mutismo di Kyla) – che esplode in un’energia vitale vomitata anche tramite gli exploit drammatici. Non è una contraddizione, ma dietro diverse scene intense si cela un impulso alla vita e all’amore che, forse, non arriverebbe con quel vigore se fosse stato messo in scena diversamente. Un aspetto fondamentale e imprescindibile è la messa in quadro, studiatissima già a partire dal formato scelto. Dopo aver girato un videoclip per gli Indochine nel 2013 in 1:1, ha deciso di usarlo anche in questo lungometraggio per sfruttare l’idea del quadrato perfetto: il ritratto di una fotografia, dove non sei distratto né a sinistra né a destra, ma stai su quei personaggi-persone come se fosse il pedinamento della macchina a mano si cristallizzasse. «Il personaggio è il nostro soggetto principale, inevitabilmente al centro della nostra attenzione. I nostri occhi non possono perderlo, o perderla» ed è proprio in questa idea estetica e, verrebbe da dire anche etica del cinema, che l’apertura arriva, in mano ai personaggi proprio come la musica, usata in senso diegetico.
Se J’ai tué ma mère era un omaggio a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, dove si vedeva in nuce la voglia di Dolan di rischiare anche con la tecnica frantumando corporalmente e mentalmente i suoi personaggi, dopo Les Amours imaginaires (2010), Laurence Anyways (2012) e Tom à la ferme (2013), in Mommy dimostra una maturità registica notevole – non a caso gli è valso al Festival di Cannes 2014 il Premio della Giuria ex-æquo con Adieu au langage di Jean-Luc Godard. Colpisce la padronanza che ha del linguaggio cinematografico, non ultima l’intuizione del formato come cassa di risonanza dei sentimenti, il tutto alla giovane età di venticinque anni e senza essere – a suo dire – una persona che guarda film in continuazione.
Con l’ultimo lavoro riallaccia con più presa il filo rosso inaugurato con il primo, ma non si ripete, deglutisce la materia dell’archetipo per approfondire nuove dinamiche: si passa, infatti, dall’adolescente Hubert – in rotta di collisione con la madre – a Steve, orfano di padre, innamorato di sua madre a tal punto da essere pericoloso. Qui Anne Dorval è chiamata a un ruolo completamente diverso da quello colorito vestito ne Les amours imaginaires, rielabora, anche lei a suo modo, la madre coraggio di brechtiana memoria e cerca di amare, con gli sbagli e gli slanci di chi vuole vivere. Un collante particolare è costituito proprio vicina Kyla, funzionale (anche a se stessa) sia in questo viaggio di riscoperta della vita – dura, cruda, ma anche armoniosa -, che nell’odi et amo tra madre e figlio.
Non siamo soliti etichettare e non vogliamo che sia fraintesa o sovrausata l’espressione “enfant prodige”, ma nel caso di Xavier Dolan è proprio il caso di usarla. I rallenti, l’uso peculiare di fuochi e mascherino, precise inquadrature di spalle non devono spaventarvi: non è cinema solo per cinefili, anzi, tutto vi prenderà al cuore, alla pancia e alla testa, vi ritroverete a guardare come se osservaste davvero tramite una fessura, entrando in un mondo di emozioni che continuerà a pervadervi anche post-visione.
Maria Lucia Tangorra
Leggi anche l’incontro con Xavier Dolan.