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Moloch

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VOTO: 5

I sussulti della palude

Dopo le proiezioni in alcune delle più prestigiose vetrine internazionali dedicate al genere fantastico e fantascientifico come il Fantasia International Film Festival e il Brussels International Fantastic Film Festival, dove ha vinto il Silver Méliès per il miglior film europeo, per Moloch di Nico van den Brink c’è stata anche l’occasione per fare una tappa nel Bel Paese, per la precisione in quel di Milano, dove è stato presentato nel concorso della quarta edizione di Oltre lo specchio.
Con la sua opera prima, dopo il mediometraggio drammatico Avondland e svariati cortometraggi in cui ha esplorato in lungo e in largo il ventaglio dei generi, il regista olandese ha deciso di tornare al suo primo amore cinematografico, ossia a quell’horror che tante soddisfazioni gli ha dato ai tempi delle produzioni brevi con le quali si è cimentato e che gli hanno portato numerosi riconoscimenti. Che quelle del nero dell’oscurità, del blu della paura e del rosso del sangue siano dunque le tinte che più si addicono al suo cinema è cosa ormai comprovata, tanto da ritrovarle sulla tavolozza con la quale l’autore ha scelto di dipingere questo nuovo affresco dell’orrore che scaraventa lo spettatore al seguito di Betriek (Sallie Harmsen), una donna che vive con la figlia Hanna (Noor van der Velden), il padre Roelof (Fred Goessens) e la madre Elske (Anneke Blok) ai margini di una torbiera nel nord dei Paesi Bassi. Sulla famiglia pesano le conseguenze di un passato drammatico: trent’anni prima la nonna di Bietrek è stata brutalmente uccisa. Un evento che ha sconvolto i genitori di Hanna, dato che Roelof è sprofondato nell’alcolismo, mentre Elske ha iniziato a soffrire di una malattia sconosciuta, che le provoca temporanee e imprevedibili convulsioni. Betriek è vedova, avendo perso precocemente il marito, morto per via di un infarto. Tutte queste tragedie hanno dato luogo a dicerie locali, tanto che la gente del posto considera la famiglia maledetta. Quando una notte vengono attaccati da uno sconosciuto senza motivo, la donna si propone di trovare una spiegazione una volta per tutte, ma più si avvicina alla verità, più si rende conto di essere inseguita da qualcosa di antico e che le disgrazie che la circondano siano da attribuire a fenomeni soprannaturali.
Il titolo che accompagna questa vicenda lascia già intuire, alla pari di un biglietto da visita, in quale filone la pellicola si va a iscrivere, attingendo da esso temi, stilemi, caratteristiche e modus operandi. Siamo nel terreno del folk-horror e della scia lasciata dalla recente ondata che si sta riversando in questi anni sugli schermi di tutto il mondo con risultati altalenanti. Se film come The VVitch, Hereditary o Midsommar hanno fornito al pubblico e agli addetti ai lavori segnali incoraggianti a riguardo, prodotti di livello decisamente inferiore alla pari di quello del regista olandese invece abbassano e di molto l’asticella, andando a raschiare il fondo del barile della mediocrità come avvenuto ad esempio di recente con Old People del collega tedesco Andy Fetscher, sbarcato su Netflix lo scorso ottobre.
Partendo dalla leggenda del dio fenicio Moloch, van den Brink mescola il mystery soprannaturale con il folclore locale e le antiche suggestioni pagane, ambientando la vicenda nella sua terra natia. Un mix, questo, che seppur potenzialmente interessante e suggestivo non porta agli esiti sperati. Al fotofinish Moloch si presenta infatti come un horror dozzinale, con rarissimi momenti di lucidità in cui l’autore mostra timidi segnali di ripresa, che finiscono però con il perdersi nella generale carenza strutturale della scrittura da attribuirsi alle penne di Daan Bakker e dello stesso regista, che firmano insieme soggetto e sceneggiatura. L’accumulo di situazioni già viste e la completa dipendenza dai dettami e dagli stilemi del filone di riferimento, ai quali il regista non aggiunge nulla di suo né narrativamente né tecnicamente, rende la pellicola una minestra riscaldata e omologata.
A funzionare sono sole le atmosfere oscure, nebbiose, spettrali dei luoghi rurali che fanno da cornice, ben fotografate da Emo Weemhoff, ma non tutto il resto, a cominciare dall’uso del jumpscare sempre prevedibile e mai capace di fare saltare dalla poltrona lo spettatore. Se in un film che si basa su questo, sulla tensione e su effetti poche volte davvero speciali (vedi la resa degli spettri), deve farne a meno di tali ingredienti per gran parte della timeline, allora la strada non può che essere tutta in salita.

Francesco Del Grosso

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