Sontuoso spettacolo Marvel, non privo di difetti
Il potente regno di Wakanda è nella disperazione. Il grande Re T’Challa, la Pantera Nera, difensore della piccola nazione africana, è morto. Un anno dopo il funerale, la regina Ramonda (Angela Bassett) è alle prese con le nazioni del mondo che, approfittando della crisi, tentano continuamente di mettere le mani sul rarissimo Vibranium, metallo esistente solo a Wakanda e che consente di produrre soprendenti tecnologie e armi avanzate. Visti i ripetuti fallimenti, sono in molti a cercare il prezioso elelemento anche altrove e, quasi per caso, sono gli Stati Uniti, grazie ad una nuova apparecchiatura, ad avere maggior fortuna, poiché un loro vascello scientifico scova un giacimento al largo delle coste messicane. A difendere quelle profondità marine, però, c’è una sconosciutà civiltà acquatica che abita segretamente nella città sommersa di Talokan, la quale non esita a massacrare chiunque si avvicini, tanto da uccidere tutti i componenti della spedizione. La principessa Shuri (Letitia Wright), ancora prostrata dalla morte del fratello T’Challa, si reca in America assieme al generale Okoye (Danai Gurira, famosa per il ruolo di Michonne in The Walking Dead) per rintracciare il progettista del macchinario in grado di individuare il Vibranium. A sorpresa, è una giovanissima e geniale studentessa del Mit, Riri Williams (Dominique Thorne) sulle cui tracce, tuttavia, ci sono anche i sicari del principe degli abissi, Namor (Tenoch Huerta), intenzionati ad eliminare alla radice il pericolo di essere scoperti dai popoli di superficie. Si profila un vero e proprio scontro di civiltà, perché Wakanda e Talokan sono entrambe legate con fierezza alle proprie radici e, pur condividendo un passato di inimicizia e sospetti nei confronti del resto del mondo, hanno una visione del futuro diametralmente opposta: Namor intende portare una guerra totale al pianeta, mentre il Wakanda desidera preservare la pace. E’ la miccia di un conflitto mai visto prima.
Il regista Ryan Coogler, sceneggiatore assieme a Joe Robert Cole di Black Panther: Wakanda Forever, dopo l’enorme successo di Black Panther (2018) è di nuovo al timone delle vicende che raccontano le gesta della casa regnante T’Challa. Non è un film qualsiasi e ce ne rendiamo conto dopo un’intensa sequenza iniziale, vedendo il logo Marvel a lutto per ricordare l’attore Chadwick Boseman, interprete di Black Panther, scomparso due anni or sono a causa di un tumore. L’intera pellicola sembra voler elaborare il dolore per questa perdita, non solo da parte dei personaggi, ma anche da parte di autori ed attori dell’universo narrativo più prolifico e popolare del cinema. L’utopico regno africano stavolta appare disperatamente solo, senza un eroe a battersi per esso, con un pianeta intero che invidia e brama le sue ricchezze. L’inquietante attacco alla nave degli scienziati, di cui la regina Ramonda viene ingiustamente sospettata, non fa che aumentare il desiderio delle altre potenze di vederlo finalmente schiacciato, con gli Stati Uniti in prima linea a volerne l’annientamento. Ma la minaccia reale proviene dal profondo, dove si celano nientemeno che i discendenti di alcuni nativi centroamericani che, conquistati e schiavizzati dagli spagnoli, sono riusciti a trovare miracolosamente un rifugio. Per sempre mutati, capaci di vivere sul fondo dell’oceano, sono guidati dal carismatico Namor che ritiene sia giunto il momento di dispensare la sua furia sulla terraferma. Impossibile qui non notare le accuse al colonialismo, alle ferite che una storia fatta di angherie e schiavitù può arrecare ai popoli. Il pericolo è di soccombere alla rabbia, alla vendetta, ad una volontà di guerra che non può che condurre ad altri morti e ad altro risentimento, come quello che brucia forte nell’animo della principessa Shuri. Di chiavi di lettura, insomma, ce ne sono molte, forse fin troppo scoperte tanto da voler utilizzare il personaggio di Namor per portare sugli schermi la causa dei popoli sconfitti dai “Conquistadores”. Le sue origini, così come raccontate nei fumetti, in realtà non hanno nulla a che vedere con questo: egli è anzi un ibrido fra gli umani e i tritoni, frutto dell’amore fra il padre, marinaio, e la madre, principessa di Atlantide. La sua rabbia nei confronti dei popoli di superficie c’è anche tra le pagine degli albi, ma non ha nulla a che vedere con una moderna, indignata e un po’ paternalistica visione del periodo coloniale, quanto una decisa difesa a oltranza dell’ambiente, distrutto e consumato dalla voracità dell’uomo. Anch’esso un tema non male, ma a quanto pare negli studios hanno pensato di reinventare tutto pur di ricordare (per l’ennesima volta) all’Occidente i suoi crimini storici. Si tratta di una tematica che negli ultimi anni, in America, sta particolarmente a cuore, tanto che le prediche neanche troppo celate abbondano, quindi la scelta può essere quantomeno compresa. Altamente spettacolare come non lo era da tempo un prodotto della Marvel, i reali difetti del film, però, sono nell’eccessiva lunghezza (più di due ore e mezza!) e in una sceneggiatura che ogni tanto ha qualche scivolone. Va bene che siamo nel mondo dei “comics”, ma veramente dobbiamo credere che con miliardi di dollari a disposizione e menti eccelse, gli Stati Uniti, per la loro campagna mondiale ultrasegreta di ricerca del Vibranium, si sono rivolti a una studentessa appena diciannovenne e dal carattere difficile, per quanto brillante? Usando il macchinario di sua invenzione senza neanche modificarlo, sebbene sia costruito con parti di ricambio raffazzonate e di seconda mano? Forse non è un caso che siano soprattutto le parti in cui compare la giovane Riri quelle più deboli (occhio anche al direttore della CIA più improbabile che abbiate mai visto), condite da dialoghi da teenager e inserite, apparentemente, per introdurre una supereroina che avrà la sua serie sulla piattaforma streaming Disney+. E a proposito di televisione, un altro tasto dolente è l’assoluta mancanza di attori di grande calibro (no, Martin Freeman qui è davvero un pesce fuor d’acqua, tanto per rimanere in tema), con un cast più adatto, appunto, ad un prodotto serializzato per il mercato casalingo. Fatta eccezione per la presenza scenica di Tenoch Huerta e Angela Bassett, e di un impegno comunque visibile da parte di Letitia Wright, non c’è un collettivo particolarmente interessante, né capace di accompagnare fino in fondo le emozioni forti che Wakanda Forever vuole esprimere. A peggiorare le cose, va detto, c’è un doppiaggio italiano non sempre all’altezza (imbarazzante e incomprensibile il cosiddetto “cameo vocale” di Khaby Lame, seguitissimo influencer). Rimane uno spettacolo sicuramente sontuoso, dovuto anche agli splendidi costumi, un equilibrato racconto che pur sfoggiando sequenze d’azione impressionanti dimostra di avere anche cuore.
Massimo Brigandì