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Mercenaire

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VOTO: 7

Più vicino alla meta

Chi frequenta lo sport-drama conoscerà sicuramente i suoi modus operandi, gli schemi collaudati, i temi e gli stilemi, ma anche il bel carico di stereotipi che lo contraddistinguono, lo sorreggono e lo alimentano. Nella stragrande maggioranza dei casi ci si trova a fare i conti con un copione drammaturgico e con delle one lines che i fruitori abituali, e forse anche quelli occasionali, avranno oramai metabolizzato, tanto da averne codificato e acquisito la maggior parte dei meccanismi interni. Di conseguenza, prevederne dinamiche e sviluppi, compresi il destino dei protagonisti e l’epilogo, diventa quasi un riflesso condizionato. La sensazione è quella di ordinare dal menù del ristorante sempre la stessa portata, della quale si conosce già il sapore e le consistenze, privandosi così del gusto della scoperta. Il tutto fa parte del gioco; prendere o lasciare.
Noi prendiamo e senza riserva alcuna perché sappiamo benissimo che l’originalità e l’imprevedibilità non fanno parte, e forse non lo faranno mai, del DNA del genere in questione. Ciò sul quale lo sport-drama punta sono piuttosto le emozioni e il coinvolgimento del pubblico, con gli autori di turno che per raggiungere l’obiettivo prefissato passano si affidano in tutto e per tutto alle parabole sportive dei protagonisti, consumate dentro e anche fuori dai campi di gara. Le imprese dei singoli e delle squadre, che si vinca o si perda, diventano il baricentro su e intorno al quale ruotano le opere e l’imprescindibile messaggio finale, ossia “l’importante è partecipare”. Ma nel filone trovano spazio anche quei film come Mercenaire che riescono a estendere l’orizzonte drammaturgico oltre gli elementi classici, aggiungendo ad essi un percorso parallelo che riguarda l’evoluzione umana e le fasi che la scandiscono.
L’opera prima di Sacha Wolff, presentata nella sezione Festa Mobile della 34esima edizione del Torino Film Festival e già vincitrice del Label Europa Cinemas a Cannes 2016, dove era stata selezionata alla Quinzaine des Réalisateurs, ha nella propria architettura entrambe le parabole, che il più delle volte finiscono con l’intrecciarsi dopo essersi date il cambio sulla timeline. La scrittura del regista francese, unico firmatario dello script, si basa proprio su un “In and Out” che ci mostra e racconta il mondo del protagonista a 360°. In questo modo, lo spettatore riesce a entrare in contatto con le due facce della medaglie, così da scoprire cosa c’è al di là dello sportivo e delle sue imprese, cosa lo spinge ad andare avanti e a combattere. Si tratta di un aspetto ricorrente in ogni sport-drama che si rispetti, ma qui riveste un ruolo fondamentale, sul quale Wolff pigia moltissimo sull’acceleratore, tanto da preferirlo alle azioni di gioco. In tal senso, le scene squisitamente sportive, in questo caso ambientate sui campi da rugby sono ridotte all’osso. Dunque, gli amanti dello spettacolo potrebbero non apprezzare la scelta, ma è una questione di gusti e in quanto tali sono soggettivi. Dunque, tale componente viene in gran parte meno. Personalmente, l’abbiamo gradita, perché ad essa sono legati quegli slanci commoventi di umanità che ci hanno maggiormente colpiti.
Ciò che muove il protagonista di Mercenaire non è l’affermazione personale e il successo, piuttosto il bisogno di fuggire dalle catene che lo tengono imprigionato a una quotidianità difficile, fatta di violenze e di continue vessazioni da parte del padre. L’opportunità di volare dall’altra parte del Pianeta diventa per lui una questione di vita o di morte, la possibilità di ricominciare. Grazie all’intercessione del viscido Abraham, Soane si trasferisce dalla nativa Polinesia in Francia per diventare rugbista professionista. A causa di un errore finisce però in una squadra di seconda categoria. Sebbene sia un cittadino francese, si ritrova presto emarginato ed è costretto a subire l’avversione di chi lo considera soltanto un giocatore di rugby. Ad aspettarlo nel Vecchio Continente non c’è nulla di quanto sperava, solo fatica, sangue e debiti. La traiettoria del viaggio di Soane è condizionata anche dai fattori storici che tuttora caratterizzano i rapporti tra l’Oceania e gli antichi colonizzatori, gli europei. Il legame poco chiaro con Abraham, che da tutore e figura salvifica diventa un trafficante senza scrupoli, è funzionale al tema e illustra le difficoltà di far coesistere i valori tradizionali polinesiani con quelli occidentali. I giocatori di rugby di oggi sono i discendenti delle vittime della tratta degli schiavi di ieri, rapiti dai capitani delle navi europee e condannati a una schiavitù camuffata da lavoro che li costringeva a vivere in condizioni disumane in giro per il mondo. Dunque, nel dramma sportivo si insinuano con prepotenza anche tematiche complesse e importanti reminiscenze storiche, ma anche i capitoli di un romanzo di formazione, ruvido e spigoloso, con tutto il bagaglio di ingredienti tipici del coming of age.

Francesco Del Grosso

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