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Men

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VOTO: 7

Così spietati, così indifesi

Tutto ciò che nei due precedenti lungometraggi diretti da Alex Garland viaggiava sottotraccia, con differenti sfumature, deflagra prepotentemente in questo Men, per l’appunto opera terza dello sceneggiatore e regista londinese. La complessità estrema (eufemismo) dei rapporti donna/uomo, presente “sotto mentite spoglie” fantascientifiche in Ex Machina (2014) e Annientamento (2018), costituisce il nucleo principale di un’opera contraddittoria come Men, la quale già dal titolo pare presentare un’autentica dichiarazione d’intenti. Un horror psicologico dove la fuga impossibile dal proprio recente passato di una giovane donna rimasta traumaticamente vedova si tramuta ben presto in una drammatica esplorazione nel maschilismo più bieco, retaggio di un patriarcato impossibile da estinguere poiché ormai facente parte del dna sociale.
Harper ha appena perso il marito. Suicida (o forse no) dopo aver appreso delle intenzioni della donna di porre fine alla loro relazione. Egli aveva minacciato più volte il suicidio, come apprendiamo da ben orchestrati flashback. Accusando Harper come responsabile della sua eventuale morte. Che avviene, in circostanze misteriose.
Harper decide allora di fuggire da Londra e dalla casa teatro del dramma. Si rifugia in un ameno ed isolato villaggio di campagna, dopo aver preso in affitto una grande villa di epoca addirittura shakespeariana. Dopo aver fatto conoscenza dell’untuoso padrone di casa Geoffrey, Harper scoprirà a proprie spese quante sgradite sorprese il villaggio ed i suoi abitanti potrà riservarle.
Incastonato in una riuscitissima, estetizzante, atmosfera semi-onirica, Men impiega a pochissime sequenze per catapultare lo spettatore nella psiche ferita della protagonista. I fantasmi di una società dalla forma mentis tanto maschilista quanto retrograda bussano presto alla sua porta, sotto svariate forme. Ma sempre con le medesime sembianze di un efficacissimo Rory Kinnear, attore per l’occasione alle prese con una moltitudine di ruoli differenti, le molte facce di una medesima medaglia. Una precisa scelta forse sin troppo simbolica – non l’unica che appesantisce un poco un lungometraggio comunque interessante – capace di mettere da subito le classiche carte in tavola: il patriarcato è un “mostro”, sia metaforico che letterale, che si autoriproduce senza soluzione di continuità. Come del resto esplicitato in un epilogo scioccante che lascia assai poco spazio ad interpretazioni di altro segno. Costruito con buona progressione di inquietudine ed angoscia – peraltro marchio di fabbrica della casa di produzione A24, sempre molto restia a seguire le mode correnti del genere – Men deve molto della sua riuscita all’interpretazione di una stupefacente Jessie Buckley, ormai eletta per acclamazione dal cinema indipendente prototipo di donna in perenne e strenua lotta con le comprensibili nevrosi figlie di una società a dir poco ostile.
Rappresentazione formalmente ineccepibile di un conflitto strisciante che si trascina dal’eternità riempiendo spesso le pagine della cronaca più nera, Men non ambisce a diventare un incubo sonnambolico alla David Lynch, dimensione artistica che il film nemmeno sfiora; piuttosto si propone come trattato psicoanalitico dalla trama basica su cui riflettere, possibilmente in coppia. Approdando alla fatidica e veritiera conclusione che il maschio, nel momento stesso in cui ricorre alla propria presunta superiorità fisica, ha già perso. Non restandogli altro che dichiarare una resa totale confessando alla donna ormai vittoriosa e fuori dal giogo il suo candido bisogno d’amore. Troppo tardi.

Daniele De Angelis

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