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Wolfgang Petersen, un tedesco a Hollywood

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Chi era costui?

Quando un regista assurge al rango d’autore il suo nome precede o almeno accompagna il titolo del film da lui (o lei) diretto. Altre volte magari si parla di un film conosciutissimo, entrato dalla porta principale nell’immaginario popolare, ma il nome di chi l’ha diretto sfugge, quasi si trattasse di un dettaglio di secondaria importanza.
Wolfgang Petersen, tedesco di Emden e scomparso a ottantuno anni per un cancro al pancreas, possiamo annoverarlo in quest’ultima categoria. Ci rendiamo perfettamente conto che potrebbe non trattarsi di un complimento,  ma nemmeno di una troppo pesante sottovalutazione. Perché Petersen, senza tema di smentita, ha sempre preferito mimetizzarsi nelle storie che metteva in scena, con uno stile apparso privo di guizzi ai detrattori ma spesso perfettamente confacente alla natura intrinseca del lungometraggio in questione. Se poi Petersen veniva assistito da una buona sceneggiatura, ecco che poteva partorire opere di assoluto rispetto e valore, capaci non solo di conquistare un posto al sole del botteghino ma anche diversi consensi da parte della critica più esigente.
La carriera di Wolfgang Petersen, dopo una serie di lavori a carattere televisivo, decolla impetuosamente con U-Boot 96 (1981), oggettivamente riconosciuto tra i migliori film bellici mai realizzati sul Secondo Conflitto Mondiale. Le vicende del leggendario sottomarino tedesco attraggono immediatamente l’interesse di Hollywood, che gratifica U-Boot 96 di diverse candidature agli Academy Awards. Tuttavia Petersen resta ancora temporaneamente in Germania girando La storia infinita (Die unendliche Geschichte, 1984) tratto dal testo di Michael Ende. Un fantasy che non solamente diventa in breve un culto infantil-adolescenziale ma soprattutto palesa senza ombra di dubbio l’abilità di Petersen a cambiare genere con disinvoltura continuando però a sfornare successi. Con il successivo Il mio nemico (Enemy Mine, 1985), praticamente una rilettura in chiave fantascientifica del bellissimo Duello nel Pacifico (1968) di John Boorman, Hollywood entra di prepotenza nella carriera artistica di Petersen, anche se il film fu girato in gran parte nei familiari studi della Baviera. L’inclinazione alla spettacolarità diventa in breve peculiarità del cinema di Petersen. Ne sono testimonianza il thriller purissimo dagli echi hitchcockiani Prova schiacciante (Shattered, 1991) e soprattutto l’eccellente Nel centro del mirino (In the Line of Fire, 1993) tra le prime opere a ragionare compiutamente sulla “decadenza” del corpo attoriale di una star assoluta come Clint Eastwood. Il cui duello narrativo e recitativo con lo psicopatico John Malkovich resta tuttora un’autentica chicca cinematografica.
Grazie a questi successi la dimensione produttiva del cinema di Petersen cresce in maniera ipertrofica. Virus letale (Outbreak, 1995) spettacolarizza con successo ataviche paure umane su minuscole e deleterie entità che avremmo imparato purtroppo a conoscere qualche decennio più tardi. Mentre Air Force One (1997), con un Harrison Ford impavido Presidente U.S.A., anticipa con acume ridondante i timori di un terrorismo internazionale. Critica schizzinosa, ma successo enorme. Come del resto i successivi La tempesta perfetta (The Perfect Storm, 2000), lungometraggio dagli effetti visivi da lasciare senza fiato, e Troy (2004) liberissima – e sin troppo disinvolta – rilettura dei poemi omerici con cast all-star capitanato da Brad Pitt dall’innegabile fascino spettacolare. Un cinema di puro sguardo che si dimentica poche ore dopo la visione, al pari del nome del regista.
Dopo un ennesimo film appartenente al filone catastrofico, Poseidon (2006), remake senza infamia né lode, la carriera di Petersen si conclude con piccolo film girato in patria nel 2016, la commedia poliziesca Vier gegen die Bank.
Battistrada a Hollywood di altri connazionali come Roland Emmerich, il nome di Wolfgang Petersen non merita certo l’anonimato a cui spesso è stato condannato. Tutti i suoi film – riusciti o meno ma sempre molto visti – hanno contribuito alla creazione dell’immaginario cinefilo personale di chiunque di noi. Una sorta di “debito” che prima o poi tutti dovremo riconoscergli.

Daniele De Angelis

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