The Bellocchios
Ognuno di noi può avere due heimat, come spiega Edgar Reitz: una è quella in cui siamo nati e cresciuti, che non abbiamo scelto, la seconda è quella invece dove abbiamo deciso di vivere da adulti per vari motivi, lavoro, famiglia. Per Marco Bellocchio la prima di queste è rappresentata dalla zona del piacentino, nella val Trebbia, da cui si è allontano da giovane per inseguire la carriera cinematografica nella capitale. La sua terra natia e la sua origine famigliare sono comunque sempre presenti nel suo cinema, a partire da Pugni in tasca e da quel precipizio nella val Trebbia dove Alessandro spinge la madre. Un ulteriore ritorno a questa heimat di ricordi famigliari è rappresentato da Marx può aspettare, documentario presentato sulla Croisette 2021, tra le Cannes Première, in occasione dell’onorificenza alla carriera data al regista. Il film è incentrato sulla figura di Camillo Bellocchio, fratello gemello di Marco, morto suicida nel 1968. La forma è quella, normale e semplice, di un documentario, con una singolare somiglianza con The Rossellinis di Alessandro Rossellini, su un’analoga famiglia numerosa dove non tutti hanno avuto successo, o comunque nello stile di un documentario su un cineasta, con uso di interviste, filmati di repertorio e spezzoni dei film. Ma Marx può aspettare è qualcosa che va molto oltre. Da autore per cui la psicanalisi è sempre stata centrale, Bellocchio realizza un’analisi su di lui, sui propri rimossi e sensi di colpa, sui propri famigliari e sul suo cinema.
Sembra una trattoria popolare quella dove avviene la riunione famigliare nella prima scena del film, con cui iniziano le riflessioni di Marco Bellocchio. Nella famiglia numerosa del regista i nomi ritornano, come Piergiorgio che è il nome del fratello quanto del figlio, come usanza di una volta. Ed è una famiglia che ha prodotto due intellettuali di spicco in campi diversi, oltre al cineasta il fratello Piergiorgio che è stato fondatore della rivista letteraria Quaderni Piacentini. Proprio il fatto di non appartenere a un mondo di successo, cui sono arrivati indipendentemente due fratelli, e di non accettare comunque quella mediocritas provinciale, in cui è rimasta un’altra parte della famiglia (le “Sorelle Mai” che spesso Bellocchio inserisce nei suoi film), è probabilmente riconducibile la causa del suicidio di Camillo. E il rimorso di Marco per essere stato quello che invece ce l’ha fatta.
In Marx può aspettare tornano tanti momenti del cinema di Bellocchio, nei loro legami con la storia della famiglia. Torna quell’antico grande ponte ad archi che, attraversando il fiume Trebbia, porta alla heimat Bobbio. Torna Gli occhi, la bocca che ricalcava proprio quell’episodio autobiografico del regista, dove usa proprio il suo attore feticcio Lou Castel, e dove già viene pronunciata la frase «Marx può aspettare» che davvero Camillo pronunciò in risposta al suggerimento di Marco di leggere Il Capitale per trovare la propria strada nella vita. Rappresentava il disimpegno del fratello, un ragazzo che non pensava alla politica, nel ’68, nella provincia, e che cercava una soluzione di quieto vivere come insegnante di ginnastica. L’unico fratello ad aver fatto il militare, dice Bellocchio. E probabilmente anche il film Marcia trionfale, pur non citato, potrebbe avere qualche legame. Del resto Marx può aspettare contiene anche una grande ellissi, laddove una dei principali intervistati è la sorella della fidanzata di Camillo, ma non viene mai detto nulla sulla stessa, se, come presumibile, non sia più in questo mondo e come lo abbia lasciato.
Spazio nel film per due esegesi di esperti, della vicenda dolorosa di Camillo: lo psichiatra Luigi Cancrini e il padre gesuita, e critico cinematografico, Virgilio Fantuzzi che ricorda come un collega ecclesiastico aveva definito le bestemmie di L’ora di religione come equivalenti ai lamenti di Cristo sulla croce. Con Marx può aspettare, Marco Bellocchio ha realizzato un compendio del suo cinema e della sua vita, nel rapporto di amore e odio con le proprie origini, religione e marxismo, borghesia e socialismo. Quelle fratture dilanianti della sua anima con cui il cineasta ha raccontato l’Italia.
Giampiero Raganelli