Saper(si) amare
«Ciò che amo di Nicole (Scarlett Johansson)… ti ascolta attentamente, a volte fin troppo […] Ciò che amo di Charlie (Adam Driver)… è irriducibile, non si scoraggia mai». Parte così il nuovo lungometraggio di Noah Baumbach, selezionato nel Concorso ufficiale di Venezia 76°. Scorrono le scene da un matrimonio che è arrivato a un punto di rottura, eppure da questi primi fotogrammi si percepisce l’approccio con cui questo cineasta ha voluto descrivere la “fine”, partendo dal positivo che l’uno aveva trovato e provato nell’altro. Di lì a poco si scoprirà che queste “dichiarazioni d’amore” sono frutto di un invito del mediatore intervenuto in questa fase così delicata. Marriage Story (nella titolazione italiana Storia di un matrimonio) è un’opera che va vissuta da spettatore perché sa essere uno schiaffo sul volto e una carezza per il cuore, passando con naturalezza da una scelta all’altra e arrivando in poco più di due ore a farti pensare e accettare che certo un amore può finire, ma la vita può e deve proseguire e tocca ai protagonisti trovare la quadra.
«I film sono stati per me una cura in alcuni dei momenti più bui della mia vita e mi hanno aiutato a capire ciò che credevo andasse oltre la mia comprensione. Sedendomi in una sala cinematografica, lasciavo che il meccanismo dell’empatia insito nel cinema agisse su di me. Il divorzio è la storia che accomuna moltissimi matrimoni, ed è fonte di vergogna e isolamento. Il sistema giuridico che regolamenta il divorzio è inevitabilmente concepito per dividere. Divide le persone, la famiglia, la proprietà e il tempo», ha dichiarato Baumbach, facendo trasparire quanto questa vicenda gli appartenga. Il suo modo di narrarla – forte di due interpreti così calati nei rispettivi ruoli – e di metterla in quadro la avvicina a ciascuno di noi, sia che si sia provata la separazione dalla persona che si amava sia in qualità di figlio/a, ma – passaggio ulteriore – riesce a far empatizzare anche chi non ha vissuto quello “strappo”.
Quando si pensa al divorzio trattato dalla Settima Arte viene subito in mente Kramer vs Kramer (1979), ma Ingmar Bergman è un’altra influenza che si può cogliere nel modo con cui il regista americano ritrae le persone coinvolte in questa vicenda (si è girato in un rapporto 1.66:1 e alcuni istanti evocano proprio dei fotogrammi del regista tedesco). L’obiettivo della macchina da presa pone molto in risalto le relazioni fisiche che si vengono a instaurare all’interno di una stanza e questo lo si nota, ad esempio, quando Nicole si reca dall’avvocato che la seguirà (una Laura Dern ironica e seduttiva col potere della parola), che nel microcosmo degli spettacoli allestiti da Charlie (regista teatrale definibile d’autore che ha fatto crescere qualitativamente la sua compagna, prima attrice della compagnia). Il teatro si rivela una lente d’ingrandimento con cui leggere determinate dinamiche – in scena lo spazio ha una funzione fondamentale (qui sono in campo le macro aeree di New York e Los Angeles e altrettanto essenziali ai fini narrativi si rivelano i luoghi di transizione, dall’aula di tribunale alla sala prove).
Il regista de Il calamaro e la balena, coerentemente con la precedente filmografia, riesce a tematizzare sentimenti molto profondi – a partire dalla malinconia – rifuggendo i sentimentalismi e facendo compiere letteralmente un viaggio nella relazione amorosa, con un’accurata attenzione a come il bambino della coppia (Henry ben interpretato da Azhy Robertson) viva il tutto e all’aspetto giudiziario. «Per la maggior parte degli avvocati siete solo transazioni, per me siete persone» asserisce significativamente Bert, un legale fuori dal coro e infatti subirà una determinata evoluzione.
«Io volevo offrire una nuova prospettiva, fare una proposta più generosa. Volevo trovare la storia d’amore all’interno del crollo. La speranza nelle aule di tribunale, in mezzo ai documenti e alle regole. I film sono un antidoto al divorzio. Un mondo non di separazione ma di amore», ha spiegato il cineasta, di cui traspare come quest’arte sia riuscita a far elaborare le emozioni. Storia di un matrimonio è un coupe de foudre all’interno di Venezia 76° perché ogni tassello è al proprio posto e ci permette di provare le montagne russe dell’amore, quanto due persone possano arrivare a dirsi le parole più violente e poco dopo mollare la presa, in virtù di quel bene che c’è stato e c’è ancora seppur trasformato e da riscoprire. Si osserva come si possa imparare a riappropriarsi della propria identità e che forse qualcosa si è incrinato proprio a causa dell’annullamento della personalità. Ci si alza dalla poltroncina dopo aver sorriso ed essersi commossi, con la speranza che auspicava Baumbach, ma – per chi è più romantico – anche con un pizzico di amaro in bocca. Al cinema e poi su Netflix a partire dal 6 dicembre.
Maria Lucia Tangorra