Viaggio nel razzismo strisciante d’America
Se ogni tanto uno scapaccione serve a far riflettere, American Skin, presentato nella sezione Sconfini della Mostra del Cinema di Venezia 2019, è il ceffone ben assestato dal regista Nate Parker al pubblico distratto di questi anni.
Dopo il trauma della cruda sequenza iniziale, entriamo nell’abisso di dolore di un padre seguendo il giovane studente Jordin (Shane Paul McGhie), impegnato a girare con alcuni suoi colleghi un video riguardante la tragedia che si è appena consumata sotto i nostri occhi. Verrebbe da aggiungere non una tragedia qualsiasi, ma la cronaca sembra aver abituato l’opinione pubblica americana a notizie del genere: durante un banale controllo di polizia un ragazzino di colore, appena quattordicenne, sebbene in compagnia del padre e sebbene disarmato, viene ucciso sul posto da uno degli agenti. Una sbrigativa indagine, nonostante tutto, scagiona i poliziotti. Non ci sarà alcun processo.
Siamo in una situazione che sembra avere dell’incredibile, abbiamo due genitori disperati, che hanno perso tutto, che hanno cresciuto il figlio nel rispetto della legge e che, senza un motivo apparente, se lo vedono portare via a colpi di pistola dai tutori dell’ordine. Non è una famiglia di gangster, di spacciatori, non ci sono ombre criminali nella casa di Lincoln Jefferson (interpretato con grande presenza scenica dallo stesso Parker). Nonostante questo, i colpevoli del gesto la fanno inspiegabilmente franca.
Come si riesce ad andare avanti? Attraverso il film nel film, il documentario che gli studenti cercano di girare per denunciare questa assurda ingiustizia, veniamo trasportati in giornate piene di abbattimento, dove non c’è nulla che può minimamente restituire a una famiglia qualsiasi la vita di prima. Si tratta di una condizione drammatica, aggravata oltretutto dalla ribellione della popolazione nera del quartiere, indignata dall’indecente decisione che sembra aver chiuso con un colpo di spugna la vicenda. Ma ecco che le cose cambiano, ed è qui che veniamo spiazzati dopo esserci trovati coinvolti, nostro malgrado, in quella che sembra essere una situazione in cui l’amara rassegnazione pare essere l’unica strada. Il capitano del precinto di polizia, anch’esso di colore, chiede a Tayana (Milauna Jackson), la madre della giovane vittima, di appellarsi ai rivoltosi al fine di fermare le violenze. Nonostante la comprensibile ostilità della famiglia, il richiamo viene fatto e, infine, pare funzionare. Ma per un padre disperato non bastano le scuse del capitano, la sua facile solidarietà in cambio della pace nelle strade. Quella morte è una vergogna, il processo va fatto eccome e va celebrato nostante tutto e tutti. Con l’aiuto di alcuni ex militari Lincoln, veterano dei marines, assalta armi in pugno il precinto di polizia e ne fa una nuova, rivoluzionaria aula di tribunale dove verranno messi a nudo ombre, colpe, squilibri e contraddizioni di un sistema malato. Dove poliziotti, civili e carcerati sono giudici, imputati, giurati, testimoni e, in fondo, tutti allo stesso modo vittime di un meccanismo disfunzionante.
Un padre afflitto dispensa giustizia in casa degli stessi guardiani della legge. Dopo un antefatto che sembrava preludere a un docu-film come tanti, il vero sorprendente racconto comincia ora.
Non c’è alcun dubbio riguardo il talento di Nate Parker, già messosi registicamente in mostra nel 2016 grazie a The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo. Fox Searchlight ne ha acquistato i diritti di distribuzione, dopo averlo visto in mostra al Sundance Film Festival, per ben 17,5 milioni di dollari, un record. Anche in quel caso la sensibilità di Parker aveva esplorato la questione dei neri d’America attraverso la figura di Nat Turner, schiavo di colore che aveva guidato una rivolta in Virginia nel 1831, e anche lì si era ritagliato il ruolo principale. Non è affatto il vezzo di un regista con manie da protagonista il suo, dal momento che la carriera del 40enne artista comincia proprio davanti la macchina da presa nel 2006 con Rome & Jewel, passando poi per titoli buoni (The Great Debaters – Il potere della parola, 2007, Beyond the Lights – Trova la tua voce, 2014) e decisamente meno buoni (La vita segreta delle api, 2008, Red Tails, 2012 ).
La sua è una narrazione volutamente essenziale ma mai sciatta, realistica senza per questo mancare di originalità e attenzione per inquadrature, prospettive e dettagli. Ci sembra spesso di osservare i personaggi da dietro le spalle di altri spettatori, ci sentiamo poggiati sullo stipite di una porta ad ascoltare cosa si dicono le persone nella stanza di fronte a noi o ci pare di entrare come discreti ospiti in casa d’altri. Oppure ancora capita di sentirci presi in mezzo ad una lite, coinvolti dal salire delle tensioni, dai toni sempre più concitati, in balìa di eventi troppo improvvisi per poter fare razionalmente qualcosa.
Il resto del cast è pieno di figure che ci rimangono a lungo impresse, come il compagno d’armi malato di cancro Omar (Omari Latif Hardwick) ma attenzione anche ad altri ottimi interpreti di questa pellicola, su tutti gli sbirri Randall e Reyes, interpretati con grande intensità da Beau Knapp e Theo Rossi, fieri della loro divisa e del loro ruolo dall’altra parte della barricata, ma forse neanche così tanto distanti in quelle trincee d’asfalto che hanno il dovere di proteggere a qualsiasi costo.
L’essenza della narrazione, forse, è in Jordin King che è solo uno studente che segue le vicissitudini con la sua videocamera ma che, suo malgrado come tanti altri, ne diventerà recalcitrante protagonista. Questi è un po’ il simbolo di quella presa di coscienza o, se vogliamo, di quel percorso che dovremmo intraprendere tutti nelle intenzioni di Parker: da semplici osservatori, magari curiosi e simpatizzanti, a testimoni attivi e consapevoli della violenza e dei soprusi che vanno in scena quotidianamente per le strade d’America. Qualcosa che si perde nel colpevole caos dei media moderni, superficiali, sbrigativi e drammaticamente imprecisi nel riportare i fatti che si svolgono.
Un film imperdibile, da vedere magari a dentri stretti ma da mandare giù tutto d’un fiato come si fa con una medicina disgustosa di cui, però, conosciamo gli effetti benefici.
Massimo Brigandì