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Man in the Dark

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VOTO: 7

Trappola per topolini

Se due indizi e mezzo – contiamo pure il cortometraggio Panic Attack, che lo ha fatto notare nella Hollywood di alto profilo – fanno una prova, abbiamo la certezza di come il cinema di Fede Alvarez proceda per bulimico accumulo e non per meditata sottrazione. Dopo il remake/reboot de La casa (2013), corsa sfrenata tra i sottogeneri horror che vanno per la maggiore che poco aveva a che vedere con l’inarrivabile originale e molto con un pasticcio postmoderno senza capo né coda, ancora con la benedizione produttiva della Ghost House di Sam Raimi ecco fare la propria comparsa nelle sale italiane questo thriller survoltato tendente all’horror dal titolo Man in the Dark, secondo lungometraggio nel regista originario di Montevideo. Un altro film capace di dare ragione alla vulgata cinefila secondo cui l’originalità al cinema è bella che defunta ed è possibile partorire solo Frankenstein cinematografici assemblati nei modi più disparati. Ed è proprio il cosiddetto modus operandi a fare la differenza (stavolta in positivo) per ciò che concerne Man in the Dark, poiché Alvarez dimostra stavolta di aver imparato la lezione, riuscendo a mescolare con competenza le innumerevoli citazioni presenti e dando così vita ad un prodotto interessante dal punto di vista formale. Prerogativa, quest’ultima, che garantisce un buon livello di tensione in grado di accompagnare lo spettatore per l’intera ora e mezza canonica di durata.
Ridotta all’osso, la trama partorita da Alvarez e dal suo fido collaboratore e amico Rodo Sayagues ricorda molto da vicino classici del genere come La casa nera (1991) del compianto Wes Craven, sebbene depurato quasi del tutto del background socio-politico. Nella desolata Detroit duramente colpita della crisi economica – molto belle e significative le panoramiche aeree che differenziano le zone residenziali della città con lo squallore de sobborghi; del resto il produttore Raimi la conosce bene, essendoci nato… –  tre giovani, due ragazzi e una ragazza, arrotondano le magre entrate famigliari con piccoli furti in villette di gente benestante. Finché viene proposto loro il colpo della vita: nella casa di un ex veterano di guerra – che i tre scopriranno subito essere non vedente – ci sono ben trecentomila dollari che li aspettano. Un colpo in apparenza facilissimo che potrebbe garantire loro la svolta per un futuro migliore. Ovviamente mal gliene incoglierà, essendo l’anziano proprietario assai meglio attrezzato alla difesa del previsto, con in più qualche altra “sorpresina” in loco che aspetta il terzetto.
Tralasciando una caratterizzazione dei personaggi giovanili abbastanza stereotipata, Man in the Dark (il titolo originale, più evocativo, è Don’t Breathe, cioè non respirare, con chiara allusione alla necessità di non farsi scoprire dall’uomo cieco) può considerarsi pienamente riuscito quando si concentra sull’azione claustrofobica, sulla caccia all’uomo imbastita dal non vedente, con il decisivo supporto di cane feroce, lungo la superficie dell’abitazione e appena fuori di essa. Meno quando il recidivo Alvarez decide di abbandonare i sentieri del thriller per esplorare i sentieri dell’horror venato di torture porn, con una svolta narrativa che ricorda curiosamente il nostrano Paura 3D (2012) dei fratelli Manetti. Tuttavia, a salvare un treno sempre in frenetica in corsa dal possibile deragliamento, c’è sempre l’ottima interpretazione di uno Stephen Lang (The Blind Man nei crediti) in una versione maggiormente sinistra persino rispetto al villain di Avatar. Un personaggio, l’unico davvero approfondito nel film, capace di generare inquietudine sia nell’aspetto che nel drammatico passato gradatamente svelato nel corso del plot.
Al tirare delle somme la visione di Man in the Dark richiede allo spettatore lo spegnimento della ragione ed il totale abbandono ad una tensione meramente sensoriale. Osservato in tale chiave, il film segna sicuramente un buon passo avanti nella carriera di Alvarez come abile esecutore, ma al contempo spazza via in modo pressoché definitivo tutti gli equivoci sulla sua figura come innovatore del cinema di genere: non lo è e non lo sarà mai. Poco male, del resto: anche la piena consapevolezza dei propri limiti può essere considerato un gran pregio, al giorno d’oggi. L’importante è rendersene conto…

Daniele De Angelis

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