L’uomo nero non è morto?
Opere di culto. Spesso, guarda caso, oggetto di discutibili remake. Interessanti esplorazioni sul genere. Film alimentari. Pura zavorra inconcludente. La filmografia di Wes Craven, ad osservarla con attenzione, si può riassumere in queste quattro categorie. Forse troppe – in negativo – per definirlo autore a trecentosessanta gradi; certamente più che sufficienti ad attribuirgli lo status di uomo di cinema realmente innamorato di un genere che non è solo l’horror, bensì qualcosa di più vasto e meno facilmente catalogabile.
Le note biografiche di Wes Craven raccontano di una rigida educazione battista, con i primi film visti addirittura nel periodo universitario. Si può solo immaginare lo shock da lui subito. Un trauma che Wes Craven deve aver pensato bene di rifilare anche agli spettatori della sua opera d’esordio, l’epocale L’ultima casa a sinistra (1972). Voleva che la violenza turbasse, annichilisse. Ci riuscì appieno. Pura exploitation al sesso e al sangue, chiaramente ispirata al nobile La fontana della vergine di Ingmar Bergman. Pareva un mezzo scherzo, nelle premesse. Diventò immediatamente una cosa serissima, perché nessuno aveva mai avuto l’ardire di mostrare una violenza così selvaggia e senza inibizioni sullo schermo, perdipiù con una chiara intenzione “epidemica”. Il caro, vecchio retrogusto politico dei film di genere anni settanta: la borghesia non era (è) in fondo troppo differente dalla criminalità depravata. Basta una scintilla, una qualsiasi motivazione forte. Solo un anno prima ce lo raccontava da par suo un certo Sam Peckinpah in Cane di paglia. Craven lo ribadisce con ancora maggior irruenza. Scandalo, pornografia della violenza. Ma il film resta. E dalle proiezioni di mezzanotte entra negli annali del cinema, magari per variegati motivi. Se dunque il giochino funziona perché non replicarlo? Nel 1977 ecco un altro barbarico cult-movie, dal titolo Le colline hanno gli occhi. Ancora una bella famiglia borghese allargata, stavolta non più nella loro linda dimora ma in viaggio, a fronteggiare una tribù di cannibali dopo un incidente stradale nello sperduto deserto del Nevada. Il colpo di genio? Due gruppi famigliari contro. Il primo, quello “civile”, di chiara estrazione repubblicana; l’altro, “primitivo”, in cerca di nutrimento. Chi prevarrà, al termine di una sequela pressoché interminabile di orrori? Vedere per comprendere come un regista possa scavalcare con disinvoltura il genere per approdare al film (quasi) antropologico.
Dopo qualche pellicola alimentare o del tutto inutile – come il maldestro sequel proprio de Le colline hanno gli occhi – arriva la consacrazione, con un film che segna inequivocabilmente l’intero decennio e oltre. Siamo nel 1984, nasce Fred Krueger, non ancora Freddy per gli amici. Se il sonno della ragione genera i mostri, il risveglio della sessualità può essere anche peggiore. Krueger, in seguito simbolo di divertimento seriale nei vari sequel, è l’incarnazione del puritanesimo reganiano, sorta di implacabile contrappasso per chi ha creduto nel sesso libero e nella droga. Lui uccide i loro figli, incistandosi nei loro sogni. E nei sogni, proiezione diretta dall’inconscio, ogni cosa può accadere. Nightmare – Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street il titolo originale, con tanto di inquietante e affatto casuale citazione della strada dove fu ucciso John Kennedy a Dallas) diventa così un horror trans-generazionale. Qualcuno, ancora oggi, lo definisce il film più spaventoso di tutti i tempi. Ci sono altre candidature, ma non gli si può dar torto. Perché il film in questione, realizzato con un budget assai basso, unisce orrore, romanzo di formazione, lettura sociale e politica. Peraltro arricchito da una regia in stato di grazia per fantasia e capacità di creare atmosfere (oniriche e non) malsane. Se non è un capolavoro questo…
Dopo il trascurabilissimo Dovevi essere morta (1986), Wes Craven sfoga tutto il suo ardore politico nello straordinario Il serpente e l’arcobaleno (1988), storia di zombie e dittatura ambientata, in prevalenza, in quel di Haiti, ancora sotto il giogo di Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier. Quando la finzione poggia su basi sinistramente reali il risultato non può che essere notevolissimo. Il serpente e l’arcobaleno è un’opera visionaria, virtuosistica (la sepoltura in soggettiva del protagonista) in cui il senso di soffocamento fisico è del tutto speculare a quello politico, scaturito da una dittatura becera e violenta. I luoghi comuni sono sovvertiti: gli zombie non sono altro che vittime, il pericolo è roba di potere altolocato. Fa riflettere il fatto che all’epoca il film fu trattato con la supponenza che si riserva alla serie B, mentre ancor oggi è un oggetto di culto purissimo. Meno riuscito, seppur egualmente ambizioso, è il comunque interessante La casa nera (People Under the Stairs, 1991) che vede una coppia di avidi capitalisti – in realtà fratello e sorella in odor di incesto – tenere segregati ragazzi che non si sono prestati al loro turpe gioco di “famiglia perfetta”. Un ragazzino di colore ristabilirà la normalità, in un meccanismo narrativo forse sin troppo scoperto ma efficace.
Nel 1994 Wes Craven torna sul classico “luogo del delitto”, con Nightmare – Nuovo incubo (Wes Craven’s New Nightmare, come giustamente titoleggia la versione originale). Operazione ardita, quella di scrivere la parola fine alla saga di un Freddy Krueger nel frattempo trasformatosi in una sorta di cartone animato in versione più o meno orrorifica. Craven sceglie la strada del metacinema – cioè un film in cui agisce un cast che interpreta se stesso, tra cui pure Craven medesimo – e il risultato è, artisticamente, rimarchevole. Krueger torna a far paura come essenza purissima di un Male inevitabile, che può essere al massimo imbrigliato dalla razionalità. Ma se lo si lascia vagare libero nei flussi mentali… Purtroppo il pubblico dichiarò pollice verso ad un progetto così sofisticato e il film segnò la separazione definitiva tra Craven e il suo personaggio più amato.
Ultimo squillo di una carriera registica che si concluderà proprio con il quarto capitolo della stessa saga, è Scream (1996), intrigante operazione di destrutturazione del genere horror con assassini seriali e adolescenti in versione più o meno sacrificale di cui il film svela – e al contempo si nutre – gli stereotipi e i luoghi comuni. Un film di origine squisitamente cinefila, realizzato con il supporto dell’esperto in materia Kevin Williamson alla sceneggiatura, che per alcuni ha significato la sepoltura definitiva del sottogenere. Anche se così fosse definiamola una sorta di eutanasia nei confronti di un filone che aveva ormai ben poco altro da dire. Come del resto Wes Craven nella parte conclusiva di una carriera comunque tale da non poter essere affatto sottovalutata e, tantomeno, dimenticata. A maggior ragione ora che se ne è andato, in punta di piedi a settantasei anni di età.
Daniele De Angelis