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Voyage of Time: Life’s Journey

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VOTO: 7.5

Il trionfo della vita  

Le origini dell’universo. La natura in tutte le sue declinazioni. Le prime forme di vita sulla Terra. L’alba dell’uomo. Lo sviluppo della civiltà, fino ad arrivare ai giorni nostri. Le origini di tutto, le nostre origini raccontate attraverso la macchina da presa del maestro Terrence Malick, che, con il suo Voyage of Time: Life’s Journey – in concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia – torna al Lido dopo quattro anni di assenza, avendo presentato, nel 2012 – sempre in concorso – uno dei lungometraggi che maggiormente ha diviso sia il pubblico che la critica: To the Wonder.
Malick, si sa, per la sua particolare poetica e per la sua personalissima tecnica narrativa viene spesso considerato un autore non facile, a volte addirittura eccessivamente autoreferenziale. Eppure, si tratta del suo modo di fare cinema: un approccio del tutto personale ai grandi quesiti esistenziali con storie di singoli personaggi narrate attraverso il flusso di coscienza. Uno stile, questo, che – se ripercorriamo le tappe principali della filmografia del regista statunitense – è diventato, nel corso del tempo, sempre più marcato ed estremo. Basti pensare, infatti, ai suoi primi lungometraggi – La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1978) – i quali presentano struttura e ritmi narrativi più classicheggianti. Lo stesso non si può dire per i suoi ultimi lavori, To the Wonder, appunto, e Knight of Cups, presentato in Concorso, nel 2015, al Festival di Berlino.
E proprio in questa sua ultima opera vediamo la sua estetica estremizzarsi ancora di più. Vengono abbandonate, qui, le storie personali e ci si concentra esclusivamente sull’universale. La vita – qui invocata più volte come “madre” dall’intensa voce di Cate Blanchett – fa da grande protagonista. Da lei ha origine il tutto. Ed ecco che, dopo pochi secondi di nero, appaiono sul grande schermo immagini di costellazioni, di pianeti, del sistema solare, per poi arrivare sulla Terra, dove oceani, montagne, pianure e suggestive scogliere hanno un’influenza magnetica su chi li osserva. Immagini di grande impatto e di grande potenza visiva, che, di quando in quando, vengono intervallate da filmati girati in super 8 che ci mostrano l’umanità ai giorni nostri: uomini e donne che chiedono l’elemosina in strade affollate, danze folkloristiche, corride e bambini che giocano su un prato. Filmati, questi, fortemente in contrasto con le scene che ci raccontano la nascita dell’Universo e della vita sulla Terra. Queste ultime, infatti, si distinguono per un raffinato quanto meticoloso lavoro di computer grafica, il quale, a sua volta, risulta una scelta vincente per quanto riguarda la rappresentazione di costellazioni, di paesaggi naturali e di animali, ma decisamente eccessivo e macchinoso nelle scene in cui vengono mostrati i primi dinosauri a comparire sul nostro pianeta o l’alba dell’uomo stessa (per quanto riguarda quest’ultimo elemento, già Stanley Kubrick – a suo tempo – aveva creato qualcosa di simile, ma – ammettiamolo pure – lo aveva fatto decisamente meglio).
Interessante operazione che – proprio per il massiccio utilizzo della computer grafica, appunto – anche visivamente si discosta dal resto della filmografia. Ed anche se i alcuni suoi estimatori dovessero rimpiangere la meravigliosa fotografia del maestro Nestor Almendros ne I giorni del cielo, sarebbero comunque costretti a riconoscere la grande qualità delle immagini qui presenti e la loro pertinenza rispetto a ciò che si vuole raccontare.
In poche parole, per il tema trattato e per la sua rappresentazione, Voyage of Time: Life’s Journey sembrerebbe quasi il culmine della carriera di Malick. La conclusione di un coraggioso percorso iniziato, ormai, più di quarant’anni fa. Ma sappiamo bene che, in realtà, non si tratta affatto di una conclusione. Per il 2017, infatti, è atteso il suo nuovo lavoro, Weightless. Staremo a vedere che strada si prenderà. Ma – in ogni caso – per il suo talento e per una carriera di tutto rispetto come la sua, a Malick ormai tutto è concesso. O quasi.

Marina Pavido

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