Home In sala Archivio in sala L’uomo di neve

L’uomo di neve

199
0
VOTO: 7.5

Gelo interiore

Due sono da sempre gli ingredienti fondamentali per confezionare un thriller capace di lasciare una qualsiasi traccia di sé: un villain credibile e un contesto curato nei minimi particolari. Ecco, nonostante la difficoltosa genesi produttiva – progetto che originariamente avrebbe dovuto essere diretto nientemeno che da Martin Scorsese, poi rimasto nei crediti in veste di semplice produttore – che si riverbera in parte in una sceneggiatura con qualche mancanza, ne L’uomo di neve tali caratteristiche risultano ben presenti dall’inizio alla fine sia a livello diegetico che in una lettura svincolata dalla semplice narrazione.
Primo lungometraggio in cui compare l’antieroe Harry Hole (nomen omen), personaggio partorito dalla penna del celebre giallista norvegese Jo Nesbø, L’uomo di neve, firmato infine dall’ottimo Tomas Alfredson in regia, esibisce sin dalle primissime sequenze una costruzione molto articolata. Innanzitutto l’ambientazione tipicamente nordica – Oslo e dintorni sono il teatro degli avvenimenti – conferisce immediatamente al film un’aurea universale, da non luogo dove, dietro l’apparenza ovattata del freddo e del bianco della neve, ogni nefandezza può essere possibile. Una società in cui a regnare è un’estrema insoddisfazione esistenziale, che si concretizza in relazioni di coppia in frantumi – in primis quella del personaggio principale – e vede come unica possibilità di realizzazione personale il successo nel proprio ambito professionale. In questo panorama a dir poco disastrato si inserisce il feroce serial-killer di turno, una volta tanto dal modus operandi realmente agghiacciante, perfettamente speculare alle motivazioni che lo conducono a massacrare senza pietà donne da lui non ritenute all’altezza di essere buone mogli e madri. E dopo ogni crimine lasciando un pupazzo di neve come firma, da cui il titolo. Una logica aberrante che sancisce ancora una volta la violenza pseudo-maschile come maniacale difesa di uno status quo di superiorità tanto atavico quanto ormai superato da secoli di emancipazione femminile. Nella Norvegia descritta dal film il tempo pare dunque essersi fermato: non fosse per i vari ammennicoli tecnologici presenti, persino l’ascolto ripetuto nel corso del film di una vecchia hit di inizio anni settanta come “Pop Corn” di Jean-Michel Jarre suggerirebbe una sorta di sospensione temporale a fungere da ulteriore veicolo di angoscia.
Con tutto questo materiale a disposizione, a posteriori è possibile affermare che quella di Tomas Alfredson è stata tutt’altro che una scelta di ripiego come regista. Nello specifico caso, i ritmi compassati e le dilatazioni temporali che rappresentano il suo marchio di fabbrica sia quando Alfredson si è confrontato con l’horror (sui generis) in Lasciami entrare (2008) che nella spy story sommamente atipica de La talpa (2011), appaiono infatti perfettamente adeguati ad approfondire determinate tematiche, obbligando al contempo lo spettatore a costruirsi un proprio percorso indiziario su chi potrebbe essere l’assassino e sui folli moventi delle sue turpi azioni. Probabilmente proprio per questa motivazione, diciamo così, di immedesimazione empatica con il detective Harry Hole (ben interpretato da un ottimo Michael Fassbender) la figura dello stesso rimane un po’ sul vago nella descrizione, specie di Philip Marlowe scandinavo s’intuisce ferito dalla vita ma senza che la sceneggiatura entri mai a fondo nella sua essenza. Si percepisce il suo disagio, senza molti altri particolari descrittivi. Più compiuto, sempre in ossequio al discorso sulla prevalenza femminile fatto poc’anzi, il personaggio che lo assiste nelle indagini, quello dell’altra agente di polizia Katrine Bratt, benissimo impersonata da Rebecca Ferguson. A lei spettano i momenti di suspense più intensi, prima di un epilogo che finalmente chiarisce le circostanze da un punto di vista narrativo e tuttavia lasciando intatti mille e più dubbi di spessore filosofico sulla vicenda.
Tirando le somme L’uomo di neve è un’opera complessa e sfaccettata che travalica di slancio i confini del genere, richiedendo però al pubblico una metabolizzazione non immediata che certamente non tutti possono avere la pazienza di concedere. Resta però una visione dal fascino sottilmente perverso poiché scruta in quell’abisso interiore che (quasi) tutti ci premuriamo di tenere accuratamente nascosto. Anche solo per paura di comprendere a fondo ciò che siamo realmente.

Daniele De Angelis

Articolo precedenteDove non ho mai abitato
Articolo successivoIntervista a Giovanni Bufalini

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

20 + 14 =