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Dove non ho mai abitato

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VOTO: 7.5

Case vuote

Il cinema di Paolo Franchi torna a farsi limpida indagine sui sentimenti umani. Eccellente notizia, specie dopo alcuni intermezzi – soprattutto il penultimo E la chiamano estate (2012) – complicati da un narcisismo autoriale in effetti eccessivo, pur contenendo al proprio interno i tratti distintivi di una sensibilità come poche altre. In Dove non ho mai abitato non ci sono personaggi border-line che provano ad attenuare il mal di vivere; viene descritta, in apparenza, la normalità di esistenze quotidiane che celano però quelle pulsioni intime appartenenti ad ogni rappresentante del cosiddetto consorzio umano, in primis l’utopica tendenza ad una felicità che quasi mai si ha il coraggio di ricercare a fondo. La straordinaria bellezza della nuova fatica del regista bergamasco risiede proprio nell’ennesima dimostrazione di quanto sia importante una profondità di sguardo allo scopo di rendere coinvolgente un’opera che avrebbe potuto benissimo arrestarsi sul fatidico crinale dello sterile racconto di un’anoressia sentimentale tipicamente borghese. Al contrario, facendo anche ricorso alla poetica del “non detto” esplicitata da espressioni e giochi di sguardi messi in scena da un cast perfettamente in parte, Dove non ho mai abitato riesce nella non facile impresa di rendersi racconto universale, affrontando, sia intellettualmente che con ampia compartecipazione emotiva, quelle misteriose dinamiche che racchiudono in loro stesse un mistero insondabile a qualsiasi livello o chiave di lettura.
Francesca (una splendida Emmanuelle Devos, dal quale volto traspare una vasta gamma di sensazioni trattenute) è una donna francese di mezza età, sposata con Benoit e figlia del genio dell’architettura Manfredi (il grande Giulio Brogi), residente ora a Torino. A causa di un infortunio domestico del genitore la donna si trova a trascorrere un periodo di tempo in Italia, con Manfredi che le chiede di seguire un importante progetto assieme all’austero Massimo (un inappuntabile, come consuetudine, Fabrizio Gifuni, magnifico nella sua recitazione trattenuta), da lui incaricato di proseguire l’attività del rinomato studio. Questi brevi cenni sulla trama, ovviamente, non raccontano nulla, poiché il significato più o meno occulto del quarto lungometraggio di finzione di Paolo Franchi va ricercato altrove. Precisamente in quel certo cinema prevalentemente francese – di cui il da poco scomparso Jacques Rivette è stato maestro indiscusso – dove i rapporti interpersonali divengono sorta di galassie sconosciute da ammirare con massima stupefazione (per lo spettatore) e senza urgenza di comprensione alcuna nemmeno da parte di coloro che le vivono nella finzione. L’edificazione logica e artistica di una casa, compito dei tre personaggi principali del film, diventa speculare alla costruzione di un sentimento autentico, quello tra Francesca e Massimo. Se non fosse che l’aspetto materiale è sempre molto meno sfuggente di ciò che non lo è, a maggior ragione quando esso fa riferimento alla sfera del sentimento. E il bellissimo titolo evocativo – caratteristica costante del cinema di Franchi – guarda con affetto e tenerezza a quelle persone che, nella loro vita, non sono mai stati capaci di compiere delle scelte definitive, limitandosi a condurre un’esistenza riflessa sulle figure altrui. In questo senso Francesca è un personaggio affine alla Valeria de La spettatrice (2004), opera d’esordio di Franchi; poiché “subisce” le conseguenze della vita senza prenderne possesso. Dove non ho mai abitato, con il suo intrico di amori e feticci sostitutivi, perdite definitive e rifugi da mera sopravvivenza, si prende tutto il suo tempo, dilatazioni comprese, al fine di mettere a punto una parabola amara in grado di far emergere in superficie l’essenza di quella stessa sofferenza capace di dare un senso al nostro tempo sulla Terra. Momenti in cui le decisioni prese, e persino le scelte di non decidere, feriscono sempre e comunque: resta solo da comprendere se noi stessi o qualcun altro. Ed è in quel luogo poco frequentato chiamato senso di responsabilità che Dove non ho mai abitato, grazie a dialoghi pregnanti e una regia attentissima a cogliere i dettagli, ci conduce per mano, salvo poi lasciarcela nel fatidico attimo della ricerca (impossibile) di un significato concreto capace di non dare adito a rimpianti.

Daniele De Angelis

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