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Lunana: il villaggio alla fine del mondo

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VOTO: 7

Tenero viaggio esistenziale sul tetto del mondo

Nel Buthan, pacifico regno asiatico ai confini con il Nepal, il giovane Ugyen (Sherab Dorji) vive facendo l’insegnante nella capitale Thimphu. E’ però un lavoro che non gli piace, la noia lo assale e la piccola nazione va stretta alle sue ambizioni. Nonostante la nonna insista per fargli cambiare idea, egli intende infatti lasciare il suo impiego, che trova frustrante, ed abbandonare tutto per fare il cantante in Australia. In attesa dei sospirati documenti per l’espatrio, arriva però una brutta tegola: visti i suoi scarsi rendimenti gli viene assegnato un incarico che potrebbe fargli riscoprire l’amore per la professione. Si tratta di andare nel remoto villaggio di Lunana (realmente esistente), il più sperduto tra quelli della catena montuosa dell’Himalaya. Il viaggio è lungo, prevede addirittura giorni di cammino tra i boschi, e non vi saranno comodità come il gas o la luce elettrica. Ugyen la prende malissimo, la vive come una punizione severa e, quando è il momento di incontrare le sue guide, si comporta in modo maleducato o paternalistico. Inoltre, comunica il minimo indispensabile e si chiude nell’ascolto della musica in cuffia, almeno finché non lo abbandonano le batterie. L’impatto con la vita estremamente spartana di Lunana lo spinge ad essere brusco e irriguardoso con la popolazione locale che, invece, lo accoglie con il massimo dell’ospitalità e della cortesia. Con il passare dei mesi, in attesa di tornare in città, le infantili ritrosie del maestro cominciano a sparire, il suo atteggiamento svogliato viene sostituito dal crescente rispetto per l’umiltà e la semplicità degli abitanti della sua provvisoria casa. E soprattutto da un nuovo entusiasmo per l’insegnamento, grazie ai bambini poveri ma volenterosi. Riscoprire i valori più autentici potrebbe farlo desistere dalla sua volontà di mollare?
Quello di Pawo Choyning Dorji, dal titolo Lunana: il villaggio alla fine del mondo, è il primo lungometraggio della storia a rappresentare il Buthan nella corsa all’Oscar per il miglior film internazionale, ed è indubbiamente un film tenero, in cui ad essere rappresentati sono i buoni sentimenti. E’ forte il confronto tra Ugyen, istruito e “civilizzato” eppure viziato e strafottente, e Michen (Ugyen Norbu Lhendup), il pastore di Yak che con modestia e pazienza si mette volentieri al servizio dell’ospite. Ancor più importante è la saggezza di Asha (Kunzang Wangdi), il capo del villaggio, la cui esistenza fatta di rinunce e sofferenze non lo ha piegato e, semmai, ne ha fatto un uomo di grande spessore e carisma. Sebbene molto gradevole, aiutata nel racconto dagli splendidi paesaggi che fanno da sfondo, si tratta naturalmente di una pellicola il cui canovaccio è stato già visto varie volte al cinema. L’idea del recalcitrante educatore conquistato da allievi inizialmente indesiderati, come anche l’idea dell’invio forzato in un luogo prima disprezzato e poi apprezzato, benché valida è stata sfruttata spesso. Alcuni esempi sono La scuola della violenza (1967) con Sidney Poitier o il nostro Mary per sempre (1989), anche se lì gli studenti sono teppisti o delinquenti e certo non adorabili bambini. Ma c’è anche Io speriamo che me la cavo (1992), dove il maestro è Paolo Villaggio, il francese Giù al Nord (2008), rifatto con successo in Italia con il titolo Benvenuti al Sud (2010), in cui il protagonista non è un insegnante ma un impiegato delle poste, e altri ancora. Il tema di fondo è invariabilmente lo stesso: il superamento degli stereotipi, dei preconcetti e delle diffidenze, l’arricchimento reciproco grazie all’esperienza vissuta assieme a persone diverse, la maturazione interiore. Non manca neanche un ulteriore elemento classico, la presenza della bella ragazza del posto, con il suo candore e la sua sincerità, questa volta nei panni di Saldon (Kelden Lhamo Gurung), pastorella dal canto armonioso.
I ritmi narrativi hanno un passo sereno, il taglio è a tratti quasi documentaristico, rispecchiando un po’ l’atteggiamento rispettoso con cui la troupe ha voluto girare, inserendo perfino i bambini che davvero abitano il posto.
Pur chiaro fin da subito lo svolgimento della trama, rimane comunque piacevole seguirne l’evoluzione nella sua inedita cornice, apprezzandone il messaggio sempre positivo. Forse ai richiami di una modernità superficiale è preferibile ogni tanto un po’ della genuinità della gente di Lunana.

Massimo Brigandì

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