Il volto tragicomico del Belpaese
Gli uomini passano, le maschere restano. In pochissimi altri casi, come in quello della scomparsa di Paolo Villaggio, è dannatamente importante comprendere appieno la funzione della memoria storica, il ricordo sempre vivo di qualcuno che è riuscito a materializzarsi per sempre nell’immaginario culturale italiano. Fantozzi era Paolo Villaggio: assunto tanto verosimile quanto falso nel proprio processo di reversibilità. Paolo Villaggio non era Fantozzi, e nemmeno il suo “surrogato” Fracchia. Era un uomo di intelligenza baciata dal genio capace di creare, sulle pagine scritte, una creatura bipede capace di riassumere in una persona sola tutti i difetti – ma anche qualche decisivo pregio – dell’italiano posizionato sul gradino più basso dell’ipotetica scala socio-economica. Goffo, meschino, servile; eppure in grado di prodursi in epici e commoventi slanci di ribellione nei confronti dello status quo imperante. Quasi lacrime, soffocate dalle risate, nel deserto di un apparato sociale descritto (splendidamente, sia su carta che su celluloide) nei compartimenti stagni che non prevedono alcuna possibilità di passaggio di classe.
Già, la cara vecchia lotta di classe. Che epoca gli anni Settanta! I militanti di sinistra tacciavano il personaggio di mancanza di attributi nel conflitto verso il padrone; quelli della destra capitalista sorridevano al solo pensiero delle famigerate poltrone “in pelle umana” dove posare il loro agiato didietro. Ma in mezzo? Ecco, forse Paolo Villaggio si rivolgeva essenzialmente a quella zona franca impossibile da definire, che amava farsi prendere un po’ in giro, ridendo della routine che, senza rendersene conto, gli sfumava i “migliori” anni di una vita condotta in più o meno spensierata letizia. Fantozzi – con tutti i suoi indimenticabili personaggi di contorno – era questo e tanto altro ancora. Principalmente, a livello cinematografico, l’incontro tra due sensibilità in senso assoluto preminenti quali Villaggio stesso e Luciano Salce, unico regista ad aver compreso, e reso perfettamente per immagini, le potenzialità enormi di quella maschera con il tricolore stampato in faccia. La quale valeva, e forse persino superava, i tanti volti interpretati dal mitico Alberto Sordi. Due film, Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976) per inaugurare e per certi versi chiudere il cerchio di una leggenda. Ce ne sarebbero stati altri, di film su Fantozzi. Alcuni anche divertenti, perlopiù affidati a Neri Parenti. Ma si percepiva in maniera evidente l’involuzione della maschera dalla tridimensionalità del simbolo a quella, un po’ monotematica, del personaggio da botteghino. Fattore quest’ultimo che contrassegnerà gran parte della carriera attoriale di Villaggio, salvo qualche altro sprazzo di satira ancora con Salce (Il…Belpaese, 1977. Un titolo, un programma). Altri lampi di nobile arte recitativa nel felliniano – e assai preveggente, col senno di poi – La voce della luna (1990), in coppia con Roberto Benigni (tra i due non c’è gara: vince Villaggio in souplesse) e ancora nel bellissimo, sottovalutato Il segreto del bosco vecchio (1993) di Ermanno Olmi da un fulgido romanzo di Dino Buzzati. Per il resto, come si scriveva poc’anzi, tanta “cassetta”, sempre comunque realizzata con una professionalità fuori dal comune.
Adesso che Paolo Villaggio, a nemmeno ottantacinque anni di età, se n’è andato, forse le risate sono volate via con lui, lasciando il posto ad una riflessione sull’artista che è stato nel suo sfaccettato complesso. E rivedendo ancora una volta i Fantozzi si guarderà dall’altra parte del cielo, verso quella “metà oscura” che tuttora, dopo decenni, trattiene l’Italia in una morsa tanto fintamente dolce quanto ferrea ed implacabile. Villaggio l’aveva capito e l’aveva in qualche modo urlato, dietro abilissima metafora. Il paese aveva preferito riderci sopra, perché probabilmente non c’era null’altro da fare, al tempo. E invece…
Daniele De Angelis