Brindando (mestamente) ai selfie e all’amore
Pare quasi che l’ultima edizione del Festival di Cannes sia stata attraversata da un rivolo sotterraneo di perversa scopofilia. A partire dall’ultimo Haneke, autore con The End di un’intensa, morbosa ed assai inquietante parabola sull’inarrestabile e profondissimo degrado, accentuato per l’appunto dal discutibile uso dei moderni strumenti di comunicazione, cui è andata incontro la famiglia borghese. Per approdare poi alla Russia. Ed è una Russia, quella che il cinema di Andrey Zvyagintsev ha rappresentato negli ultimi anni, il cui disagio sembra scaturire proprio dall’indebolirsi dei vincoli famigliari, da un edonismo meccanico e disincantato, dallo scarso rispetto della cosa pubblica e da altri aspetti di una crisi di valori che minaccia i rapporti interpersonali tracimando a volte nel crimine o in altre disgrazie umane. Leviatahan era stato in questo monumentale. Loveless non ne raggiunge forse la compiutezza, in quanto ruvida e livida parabola ritagliata nel caos sociale della grande nazione slava, ma rilascia ugualmente suggestioni potenti, accarezzando il dramma famigliare di quella coppia profondamente anaffettiva che, con una separazione già in atto, vede sparire misteriosamente il proprio figlioletto, per poi incastonare tale disgrazia e le sue dolorose implicazioni affettive in un quadro più ampio.
Dal tetro voyeurismo cui maniacalmente si prestano i personaggi di Haneke, specie quelli più giovani, si approda invece, in Loveless, a una complementare ansia di apparire, di immortalare i propri momenti privati, in cui l’uso smodato e pacchiano dei cellulari la fa ovviamente da padrone. In certe scene di passaggio si brinda giulivi ai selfie e all’amore.
Ma per fortuna quello di Zvyagintsev non è un semplice trattato sociologico tradotto in forma filmica, bensì un’opera cinematografica completa che le tensioni sociali le arpiona, le ingloba, senza mai rinunciare a una fine tessitura di immagini e di istanze narrative. Nella fattispecie la logica prevalente pare essere quella di una contrapposizione dentro/fuori, tra interni ed esterni, i cui sviluppi non hanno mai un esito pacifico consentendo semmai al dramma incombente di sostanziarsi, di prendere forma. Il vetro della finestra che separa la casa dei rancorosi Zhenya e Boris, coppia che si sta malamente lasciando, è per il dodicenne Alyosha un precario punto di osservazione sul malinconico paesaggio circostante. Il mondo esterno sembrerebbe già sedurlo quale possibile via di fuga da una realtà famigliare a dir poco infernale, da quell’appartamento che la macchina da presa mossa con grande attenzione dal regista russo esplora sinuosamente evidenziandone di continuo il grigiore, la quotidianità fatta di spazi separati e urla. D’altro canto anche il volersi allontanare da lì si rivelerà tutt’altro che salvifico, sicché, con la scomparsa del povero Alyosha e le ricerche ancora in corso, la componente spaziale del film verrà a definirsi in una dimensione tanto claustrofobica quanto agorafobica. E questa mancanza di una possibile “redenzione”, sia nella coppia che nella società così superficiale, distaccata, che le fa da cornice, viene ribadita anche dalle notizie che passano di continuo in televisione o alla radio, notizie che sul fronte interno come anche a livello di politica estera non fanno altro che accentuare un persistente stato di angoscia.
Stefano Coccia