Vecchia piccola borghesia
Tre immagini riprese da un telefonino, da lontano, in campo lungo, come di qualcuno che stia spiando. Così è l’incipit di Happy End, l’ultimo film di Michael Haneke, che ci riporta immediatamente a Niente da nascondere, il discorso sulle immagini rubate, sul voyeurismo. Niente di più programmatico ed enunciativo di questo film e del cinema del regista austriaco, come in un suo compendio. Il cinema come atto di scopofilia, mentre la seconda delle tre riprese, che ritrae un criceto, allude a una visione etologica, entomologica, distaccata del regista che ci guarda tutti dall’alto, o da un metaforico buco della serratura, come fossimo animaletti. L’immagine successiva è ancora un video, si direbbe una ripresa di una telecamera di sorveglianza, sempre da lontano, in campo lunghissimo, definizione sgranata, un timer nell’angolo. Si tratta di un cantiere dove avviene un incidente, una frana che, come si capirà, è costata la vita di un operaio. Già nel 1992, con Benny’s Video, il regista austriaco aveva iniziato un percorso sulla dipendenza dalle immagini, sui filmati come sublimazione di una società di alienazione, sui video come atto di cannibalismo della vita, sulla connessione, fortissima, tra riprese e morte. In un mondo dove ormai un dispositivo di cattura delle immagini è diventato un’estroflessione corporea, le sue ossessioni sono quanto mai attuali e comprovate. A differenza del collega Atom Egoyan, che all’epoca si muoveva più o meno sugli stessi territori tematici, Haneke non è stato sopraffatto da quel mondo che è diventato proprio come avevano predetto, e anche di più.
Tutto Happy End proseguirà con un uso massiccio di questo linguaggio, con riprese dal telefonino, con lunghe sequenze di chat, con la televisione, fino ad arrivare a quella coazione alla videoripresa che porterà alla scena finale. Haneke usa una struttura narrativa a incastro, dispiegando una gran serie di scene e interrompendole in modo brusco, tranciandole con un montaggio ansiogeno che non lascia mai finire una situazione. E costringendo lo spettatore in un ruolo attivo, a mettere insieme le tessere di un mosaico.
Un’altra scena ripropone quello sguardo da lontano, di spia: è quella della rissa che coinvolge quello che si scoprirà essere il figlio di Anne, stavolta come immagine cinematografica ben definita, non più quella di un telefonino. Il discorso di Haneke è ancora come quello di Niente da nascondere, una riflessione su chi ci sia dietro lo sguardo, l’enigma di chi sia il mandante delle immagini. Un punto interrogativo che rimane tale, ambiguo e sfumato. Forse solo un testimone – se ne accenna a un certo punto, una signora – ma il cinema del regista austriaco si è nella sua filmografia dimostrato quale un Leviatano capace di andare ben oltre il semplice sguardo passivo, arrivando anche a sovvertire il flusso cronologico del tempo della narrazione in Funny Games.
Dopo cinque anni di assenza dal cinema, Haneke rimette in scena il suo microcosmo di personaggi e situazioni. Il patriarca è lo stesso personaggio protagonista di Amour, ha lo stesso nome, Georges, ed è interpretato sempre da Jean-Louis Trintignant, e racconta di come aveva ucciso, soffocandola, la moglie: la storia di quell’altro film. E tornano i bambini mostri come in Il nastro bianco.
Il cinema di Haneke affonda le sue radici negli anni Novanta, con la sua sistematica distruzione della famiglia borghese, come per esempio anche nel lavoro di Thomas Vinterberg, e con i ragionamenti su video e realtà virtuali che, come si è detto, lo accumunavano a Egoyan. Il cineasta austriaco porta a compimento questi discorsi rimanendo, a differenza dei colleghi sopracitati, lucido e coerente. E adeguandosi ai nuovi mostri del contemporaneo, che lo portano a Calais, luogo del collasso dell’Europa per l’emergenza profughi. E nella famiglia alto borghese verranno fatti sfilare gli emigrati, trattati con disprezzo, “la nostra schiava marocchina” o esibiti con la relativa provenienza come in un mercato degli Stati Confederati d’America. Ma questa è quella stessa Europa che le cui premesse sono già tutte nel villaggio della Germania protestante de Il nastro bianco.
Giampiero Raganelli