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Leviathan

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VOTO: 8

Tranelli, rapacità e sottile arroganza, nella Russia di Putin

Una sciagurata “selezione naturale” ha fatto seri danni, nell’attuale panorama del cinema russo: la prematura scomparsa di Aleksey Balabanov ci ha tolto la possibilità di ammirare tutta l’arguzia e il sarcasmo di un regista, che pur cambiando spesso tono aveva saputo far emergere le ombre più inquietanti, presenti nel panorama sociale di riferimento; con storie ugualmente pungenti, sia che l’autore le avesse immaginate con la bandiera sovietica ancora sullo sfondo, sia che a essa si fosse intanto sostituita quella della Russia. Ma, per fortuna, il percorso di autoanalisi intrapreso da tale cinematografia non si è arrestato con lui. Del resto la nazione di Putin continua ad offrire, per chi sappia coglierne a fondo la deriva cinica e autoritaria, materiale narrativo di prim’ordine, da trasfigurare opportunamente. E negli ultimi mesi almeno due registi hanno dimostrato di poterci riuscire in modo egregio. Un elemento di curiosità è dato dal fatto che entrambi i lungometraggi, da noi apprezzati, risultano ambientati in uno dei lembi più settentrionali e remoti del territorio russo: il Mare di Barents. Ci riferiamo innanzitutto a  Styd (Shame), film con cui Jusup Razykov ha trionfato quest’anno al Trieste Film Festival.  La “vergogna” cui allude il titolo si rispecchia idealmente in una vergogna reale, ben radicata nella memoria del popolo russo, quella relativa al tragico incidente del 12 agosto 2000, in cui persero la vita tutti i sommergibilisti imbarcati sul K-141 Kursk. Ma Jusup Razykov non ha optato certo per una resa cronachistica dell’evento. In Styd, al contrario, l’episodio del Kursk (con tutte le controversie internazionali che ne seguirono) viene lasciato sullo sfondo, riecheggiato in termini molto vaghi e senza riferimenti diretti, per lasciar spazio a un punto di vista alternativo: quello delle donne di una base navale russa, rappresentate ognuna col proprio carattere e con un diverso modo di affrontare lo sconforto, l’ansia, la rassegnazione, che cominciano a propagarsi nella piccola comunità ai confini del mondo, non appena viene diffusa la notizia dell’incidente. La natura brulla della penisola di Kola si trova così a dialogare, nel film, con sensibilità femminili particolarmente pronunciate.

Ecco, l’importanza dell’elemento naturale è fattore comune all’altro lungometraggio, quello di cui vi vogliamo più diffusamente parlare. Ma ciò non deve stupire: il ben più noto regista di Leviathan, Andrey Zvyagintsev, già dagli esordi ci aveva abituato a un cinema dalla forte vocazione autoriale, in cui i drammi dei protagonisti tendono a rispecchiarsi nella maestosità e nell’asprezza del paesaggio russo, risultandone così amplificati. Il pensiero corre ovviamente a Il ritorno, tuttora il film di Zvyagintsev più noto a livello internazionale, avendo vinto (insieme a molti altri premi) il Leone d’Oro a Venezia nel 2003. Nel mezzo altre opere interessanti, in particolare Elena che proprio a Cannes ricevette una positiva accoglienza. Ma di fronte a un film come  Leviathan, quasi inevitabilmente, le reazioni di pubblico e critica tenderanno a diversificarsi, alternando ammirazione e un pizzico di sconcerto. Solo a tratti la potenza delle immagini che caratterizzava Il ritorno fa ritorno (scusate il gioco di parole) in questo nuovo lavoro, che nelle oltre due ore di durata vede potenziarsi a dismisura il valore metaforico della scrittura, in realtà già presente nelle precedenti sceneggiature, ma portato qui a radicarsi e stratificarsi inglobando tratti salienti della cultura russa contemporanea. L’abuso di potere e il carattere sempre più labile dei confini giuridici rappresentano gli spunti di partenza. Man mano che la storia entra nel vivo li vediamo però contaminarsi con tanti altri rivoli, ugualmente avvelenati, di una società i cui presupposti etici appaiono sempre più instabili, traballanti, con una amarezza di fondo che si insinua prepotentemente in primo piano.
Tanto per circoscrivere brevemente la trama, il protagonista Kolia è un uomo apparentemente duro che vive in una piccola città sul mare di Barents e lavora come meccanico nella propria autofficina. Tale attività è sita giusto accanto alla casa dove egli vive insieme alla giovane moglie Lilya e a Roma, figlio adolescente di primo letto. Ma sulla loro tranquillità domestica incombe, appostato come un falco, il sindaco Vadim Shelevyat, pronto a tutto pur di portar via all’uomo il lavoro e l’abitazione; perché quel terreno ha un valore e può essere oggetto di forti speculazioni. Kolia non può certo accettare di perdere tutto ciò che ha, da cui la decisione di rivolgersi a un amico, giovane e astuto avvocato di Mosca, che in un primo momento sembrerà capovolgere la situazione ma che verrà poi egli stesso travolto dagli eventi.
Quasi un “legal movie” a tinte forti e dalle coloriture acide, destinato a prendere pieghe sempre più grottesche nonché derive insospettabilmente crude e violente, Leviathan si configura ben presto come un’allegoria sul potere autocratico russo (aggiornata alla recente esperienza putiniana); e nelle maglie talmente fitte del racconto, così come in dialoghi meritevoli talvolta di applausi a scena aperta, non viene trascurato quasi nulla di ciò che viene a comporre il ritratto di un virtuale, mostruoso Leviatano; dalle infinite pastoie burocratiche ai modi quasi western con cui le armi vengono tirate in ballo, dalla minaccia sottile allo sfogo verbale dettato da un sorso di vodka in più, dai piccoli giochi di potere nel rapporto uomo/donna al ruolo subdolo e insinuante della chiesa ortodossa.
All’interno di una struttura narrativa ad anello che vede la possanza del paesaggio artico imporsi all’inizio e alla fine del racconto, uno Zvyagintsev straordinariamente maturo ha saputo farcire il suo film di uno spessore notevole, a livello tematico, nonché di dialoghi caustici, beffardi, tremendamente incisivi; su tutte la scena in cui alcuni dei protagonisti si prendono gioco dei ritratti di vecchi leader sovietici e russi appesi un tempo alle pareti, pronosticando per quelli attuali un analogo tramonto.

Stefano Coccia

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