Niente di nuovo sul fronte africano
Corrado è un consulente del Ministero degli Interni. Vive in un quartiere residenziale nel padovano, ha una moglie infermiera e due figli nel pieno del ciclo di studi. Il più grande frequenta l’università in America, mentre la più piccola è travolta dal periodo più delicato dell’adolescenza. L’uomo, prima di essere un’agente, aveva una passione per uno sport in particolare, la scherma. Dopo aver intrapreso la carriera nella polizia, non ha smesso di ragionare con la mentalità tipicamente da atleta, usando strategia e astuzia sia nel lavoro che nel tempo libero, soprattutto quando, davanti alla tv, si mette a emulare i movimenti e i tocchi utilizzando una Wii. La sua nomea arriva fino alle sedi del Governo centrale, con il sottosegretario agli interni che gli propone una importante mansione: istruire e addestrare i militari libici in modo da impedire la crescita degli sbarchi dei migranti su suolo italiano. Una missione per nulla semplice, vista l’instabilità politica e sociale che la Libia sta passando dalla caduta di Gheddafi, con due leader e altrettanti clan a contendersi il territorio.
Andrea Segre continua imperterrito per la sua strada, descrivendo realtà sociali uniche e accomunate da un tema centrale che compare all’interno dei suoi lungometraggi: l’integrazione di culture e di etnie. Se in Io sono Li e La prima neve è lo straniero a interagire in un contesto estraneo e a imparare gli usi e i costumi del luogo, ne L’ordine delle cose avviene l’esatto opposto. Il principio è praticamente lo stesso; tuttavia l’anomalia che emerge in questo film non è tanto la presenza di una persona nuova a destabilizzare le relazioni tra gli autoctoni, come è stato il personaggio di Li nella nebbiosa Chioggia o Dani nelle fresche montagne del Trentino, quanto il paesaggio circostante. Le costruzioni che l’autore riprende nel momento in cui gira per i quartieri delle città libiche si mimetizzano con il terreno arido del deserto, come se quei palazzi, quelle strade, confluissero in natura. Giuseppe Battiston, in una delle sequenze nella quale ricorda la varietà dei colori delle diverse città italiane, sottolinea come il beige che caratterizza il mondo arabo rappresenti la monotonia, dove tutto rimane immutato nonostante le trasformazioni geopolitiche in atto.
In questa situazione del tutto ignota nella quale i soggetti subiscono inevitabilmente una graduale metamorfosi, si immerge lo stesso spettatore che, a differenza delle precedenti opere dove conosce le regole, le interazioni e i comportamenti, segue Corrado in questo lungo processo di apprendimento. Entra nel futuro centro di identificazione (che più che accogliere, offre l’esatto contrario, rinchiudendo uomini e donne in celle come nelle carceri), nelle sale di incontro tra gli esponenti delle diverse istituzioni vigenti, ma soprattutto dialoga con una delle richiedenti asilo, una ragazza con un debole per la letteratura. Qui il regista immette quello che è il messaggio chiave del film, che riecheggia per gran parte del racconto. Il consulente, quando accetta l’incarico ministeriale, viene raffigurato come un uomo dedito al proprio lavoro, preciso e infallibile. Quando però comincia a instaurare un rapporto con la giovane donna che desidera a tutti i costi e con qualunque mezzo di raggiungere l’Europa, ecco che le certezze di Corrado cominciano a non essere più vincolate. Il protagonista inizia a mettere in dubbio quanto ha compiuto in questi anni, e si sbilancia, perché davanti a lui non c’è più un dato o un numero da segnalare agli organi di Governo per dimostrare quanto di buono è stato svolto, ma una persona in carne ed ossa, con ricordi e storie da raccontare e con il desiderio di cambiare vita.
L’ordine delle cose è un ulteriore passo in avanti di Andrea Segre. Un film capace di affrontare l’attualità con dedizione e umanità, in un periodo di mistificazione che non sembra purtroppo cessare.
Riccardo Lo Re