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L’albero del vicino

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VOTO: 8

Quotidiana normalità

Cos’è la guerra, se non una disputa tra vicini, ma su scala molto più grande?”. A pensarci bene, non si può non essere d’accordo con questa affermazione del giovane cineasta islandese Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, a proposito del suo ultimo lungometraggio. E, di fatto, ciò a cui ci troviamo ad assistere è una guerra in piena regola, senza esclusioni di colpi e dove non v’è distinzione alcuna tra il bene ed il male. In poche parole: quotidiana normalità. Stiamo parlando di Under the Tree (nella versione italiana L’albero del vicino), in concorso nella sezione Orizzonti alla 74° Mostra del Cinema di Venezia, e che, all’interno di una programmazione che, almeno nei primi giorni, è apparsa piuttosto tiepidina, ha avuto modo di distinguersi e di lasciare il segno. E non solo per il forte impatto emotivo di ciò che è stato messo in scena. Ma andiamo per gradi.
Ciò da cui prende il via tutta la vicenda è sì una situazione difficile, ma, in realtà, molto più comune di quanto si possa credere: Atli, padre di una bambina di pochi anni, viene cacciato di casa dalla moglie dopo averla tradita. L’uomo, così, sarà costretto a trasferirsi per qualche giorno dai genitori, ancora sconvolti per la perdita del figlio maggiore ed in continua disputa con i vicini di casa a causa di un albero che, con la propria ombra, “invade” il giardino confinante. Nulla di particolarmente nuovo, no? Eppure, da situazioni all’apparenza facilmente risolvibili, si arriverà man mano ad un progressivo inasprirsi dei conflitti dove vedremo l’essere umano tirare fuori il peggio di sé. Oltre ogni possibile immaginazione.
Ed ecco che, ancora una volta, la cinematografia nordeuropea riesce a spiazzarci, mettendo in scena – in una commedia nera che più nera non si può – l’essere umano nelle sue più spaventose declinazioni, ma, volendo, anche al suo stato più grezzo, scevro da ogni qualsivoglia condizionamento morale. E, così, entra in gioco – finalmente! – la tipica crudeltà nordica nel criticare, in modo cinico ma sottilmente e crudelmente ironico, la società dei giorni nostri, dove regna da tempo ormai immemore un certo fascismo latente e dove – essendo le persone stesse completamente disumanizzate da macchine, crisi economiche, tecnologie e compagnia bella – non v’è più alcuna traccia di umanità alcuna.
Nel raccontare ciò, Sigurðsson – che, nonostante la giovane età, ha già da tempo dimostrato grande maturità stilistica e padronanza del mezzo cinematografico – ha saputo ricreare alla perfezione ambienti ed atmosfere che ben rispecchiano il disagio dei personaggi. Ecco, quindi, luci fredde, scenografie ridotte all’osso, ambienti angusti e linee nette che, senza l’ombra di abbellimento alcuno, diventano essi stessi protagonisti della vicenda. In perfetta linea con la cinematografia del nord Europa, d’altronde, che, come abbiamo più volte avuto modo di accorgerci, sa essere sì crudele e spietata, ma anche dolorosamente – e tristemente – vera, malgrado l’ironia, sempre presente. Ѐ stato così, ad esempio, per autori come lo svedese Roy Andersson, ma anche per i più noti Lars von Trier e Thomas Vinterberg, così come per Hans Petter Moland, Ruben Ostlund, Dagur Kari e molti altri ancora. Dal canto suo, Sigurðsson ha dimostrato di essere perfettamente all’altezza dei suoi colleghi e, non a caso, già nel 2012 è stato definito da Variety “uno dei dieci registi europei da tenere d’occhio”. Non resta che attendere fiduciosi, dunque, i suoi prossimi lavori.

Marina Pavido

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