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Lettere di uno sconosciuto

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VOTO: 7

L’amore ai tempi della Rivoluzione Culturale

Dopo una parentesi dedicata ai giorni orribili in cui si consumò il Massacro di Nanchino (ovvero I fiori della guerra con protagonista Christian Bale, film che colpevolmente da noi è stato distribuito direttamente per il mercato home video), Zhang Yimou è tornato a prendere spunto dal controverso e per molti aspetti tragico periodo della Rivoluzione Culturale, che aveva già fatto da sfondo all’opera immediatamente precedente; parliamo ovviamente di Under the Hawthorn Tree, anch’essa mai distribuita nelle nostre sale ma resa oggetto, almeno, di una calorosa accoglienza al 13° Far East Film Festival, dove venne presentata in anteprima.
Eppure questo Lettere di uno sconosciuto, passato fuori concorso a Cannes, ci ha convinto persino di più. Il motivo potrebbe essere riassunto così: una cesura temporale (e narrativa) netta, collocabile a circa un terzo del film, sembra esprimere con una certa sincerità le diverse anime del grande regista cinese, la cui vocazione per i melodrammi a tinte forti si rifletteva nei primi anni di attività in un cinema dalla drammaturgia più sanguigna, aspra, emotivamente violenta, per poi migrare nel corso del tempo verso una filmografia maggiormente attenta al carattere delicato delle dinamiche famigliari, ai tempi del ricordo, alle sfumature color pastello di certi rapporti sentimentali. Corollario di tale riflessione è che i veri e propri capolavori siano venuti, naturalmente, all’inizio: Sorgo rosso (1987), Ju Dou (1990), Lanterne rosse (1991), solo per citare gli episodi più eclatanti. Mentre nella produzione recente non sono mancati, per contrasto, i passaggi a vuoto, dovuti sia a uno sguardo più addomesticato che all’eccesso di sentimentalismo, nonché elle incursioni non sempre riuscite in altri generi (in primis il wuxiapian) e per finire (a voler essere un po’ più maliziosi) alla maggiore compiacenza nei confronti dell’attuale governo cinese. In tal senso fa fede la regia della cerimonia d’apertura delle XXIX Olimpiadi svoltasi a Pechino, ed emblematica in qualche misura del percorso di allineamento appena adombrato.

Con Lettere di uno sconosciuto, però, sembrano riaffacciarsi almeno in certe sequenze il vigore e la magnificenza del cinema che l’autore, nella sua iniziale parabola, sapeva proporre. Come abbiamo già anticipato, ciò avviene principalmente nella primissima parte del film. Qui la sapiente messa in scena e la cura del montaggio riflettono i diversi micro-drammi in atto. E così i movimenti della grande Storia finiscono per ripercuotersi sull’unità di un piccolo gruppo famigliare sballottato dagli eventi. Per anni Feng Wanyu è stata tenuta lontana da suo marito Lu Yanshi, considerato un “nemico del popolo” e costretto a riabilitarsi attraverso una lunghissima detenzione nei campi di lavoro. Ma la fuga di quest’ultimo crea in tutti una certa apprensione. Le autorità si affrettano ad avvertire sia Feng Wanyu che sua figlia Dan Dan dei rischi relativi a un incontro con il fuggiasco, eventualità che per loro potrebbe corrispondere a severe sanzioni da parte degli organi di partito. Se l’emozione provata sul momento da Feng Wanyu le fa accantonare ogni prudenza, diverso è l’atteggiamento della figlia: la ragazza, cresciuta mostrando fedeltà ai dettami di Mao e del Partito Comunista Cinese, ha elaborato nel corso del tempo una notevole diffidenza nei confronti del genitore dissidente. In più sa bene quanto possa essere penalizzato da tale scomoda parentela il suo talento di danzatrice, talento che sta per fruttarle un ruolo di primo piano nell’allestimento scolastico del Distaccamento femminile rosso, celebre balletto rivoluzionario molto apprezzato dal regime. Le riprese del balletto e delle prove stesse, tra parentesi, hanno un ché di strepitoso. Dagli interessi contrastanti di madre e figlia e dal desiderio di Lu di rivederle entrambe prende quindi forma uno straziante melodramma, condensato in una sequenza notturna girata con la perizia di un thriller, come anche nell’incontro diurno alla stazione in cui l’accorto utilizzo del montaggio alternato costituisce, per l’incombenza del dramma, il presupposto ideale.

Al fatto che ci si appassioni subito al racconto contribuiscono, ovviamente, i grandi attori inseriti da Zhang Yimou nei ruoli principali. Innanzitutto Lettere di uno sconosciuto segna il ritorno della sempre splendida Gong Li sul set del suo mentore, ritorno che si faceva attendere dai tempi de La città proibita (2006). Se la diva assicura grande intensità alla figura di Feng Wanyu, altrettanto si può dire del personaggio di Lu, affidato a un altro grande nome del cinema cinese: trattasi di Chen Daoming, presenza fissa durante questi anni di diverse produzioni importanti, da Hero dello stesso Zhang Yimou ad Aftershock di Feng Xiaogang, kolossal del 2010 premiato in seguito a Udine. Senza contare, poi, la scoperta della giovanissima e flessuosa Zhang Huiween nella parte della figlia: diplomata all’Accademia di Danza di Pechino e qui al suo debutto sul grande schermo, sembra avere le doti e la personalità per andare a infoltire la già notevole galleria di star cinesi, che un tale maestro del cinema ha finora lanciato.
L’impegno degli interpreti rimane costante in tutto l’arco della narrazione. Ma, dopo la cesura temporale di cui si diceva, l’impressione è che i loro personaggi ricadano in certi stereotipi, già presenti in alcuni degli ultimi film diretti da Zhang Yimou. Le tensioni della primissima parte si stemperano in un malinconico incontro dei protagonisti a distanza di anni, finita la tempesta della Rivoluzione Culturale, allorché il presunto ritorno alla “normalità” si infrange però contro una serie di scogli psicologici apparentemente insormontabili. Nell’esaltazione dello spirito di sacrificio che ne deriva, nella costante abnegazione dei personaggi, affiora quindi quel sentimentalismo che alcune scelte di sceneggiatura rendono sinceramente toccante, altre un po’ stucchevole. Ed è dal constatare una simile variazione di toni che prende forma l’immagine di un oggetto filmico interessante, ma ancora diseguale nella riuscita, quasi un ”giano bifronte” all’interno della peraltro complessa e variegata filmografia dell’autore.

Stefano Coccia

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