Un tempo da battere
Leggi Québec e pensi subito a Xavier Dolan. Per i frequentatori delle sale e del circuito festivaliero, questa, è diventata a tutti gli effetti un’equazione perfetta, con il pluridecorato enfant prodige canadese che in pochissimi anni, grazie a una manciata di pellicole di successo, ha conquistato il cuore e la fiducia degli addetti ai lavori e non solo. Ma quello da dove proviene il regista di Mommy si è dimostrato essere terreno davvero fertile per coltivare e fare fiorire talenti o anche solidi mestieranti come ad esempio Denis Villeneuve, Denys Arcand, Jean-François Pouliot, Jean-Marc Vallée, Ivan Grbovich, Philippe Falardeau o Stephen Dunn. Tra questi ci sentiamo di inserire, ora che abbiamo avuto modo di recuperare alla 15esima edizione del Rome Independent Film Festival (dove si è aggiudicato una menzione speciale nella sezione Feature Film Competition) il suo esordio dal titolo 1:54, anche Yan England.
L’attore e cineasta di Montreal aveva già messo in luce le sue potenzialità dietro la macchina da presa con i precedenti lavori sulla breve distanza, a cominciare da Henry, con il quale si era guadagnato una nomination agli Oscar di categoria nel 2013. Tre anni dopo, con qualche altro set sulle spalle nelle vesti di interprete (tra questi figura Stonewall di Roland Emmerich), ha tentato l’avventura nel lungometraggio, con esiti che ci confermano l’impressione avuta tempo fa, vale a dire quella di esserci trovati nuovamente di fronte a un regista che conosce il mestiere, ma che ha ancora parecchia strada da fare per salire di livello. In tal senso, siamo abbastanza certi che abbia imboccato quella giusta, ma sarà solo il tempo e una speriamo futura opera seconda a fornirci una risposta in merito. Nel frattempo proviamo a mettere 1:54 sotto la lente di ingrandimento, così da evidenziarne pregi e difetti.
L’autore ci porta al seguito di Tim, un atleta di sedici anni timido e introverso, ma di grandissima intelligenza e talento. Le pressioni che subisce in ambito scolastico e sportivo, però, lo portano verso il baratro, in un luogo in cui i limiti umani raggiungono un punto di non-ritorno. Cominciamo con il dire che nello script convergono tutta una serie di temi e dinamiche narrative estremamente impegnative e delicate, che England riesce a approfondire e gestire solo in parte. Nel plot intrecciano i propri fili drammaturgici elementi disparati, alcuni dei quali necessitano di spazi e tempi più ampi e soprattutto esclusivi rispetto a quelli che ha potuto garantirgli la timeline di 1:54. Il regista canadese ha il coraggio – e bisogna rendergliene merito – di affrontarli di petto e contemporaneamente, ma nel farlo cade purtroppo nella stessa trappola dove puntualmente vanno a finire moltissimi altri esordienti, ossia quella di mettere troppa carne al fuoco. Il risultato è che una parte di questa può risultare cotta al punto giusto, mentre l’altra può non convincere e restare indigesta. Nel film troviamo, infatti, i caratteri tipici del romanzo di formazione, con tutto il suo bel carico impegnativo al seguito (ricerca della propria identità, conflitto generazionale, maturazione, ecc…), che vanno a mescolarsi con quelli dello sport-drama e del dramma sociale. La saturazione non impedisce però alle emozioni di divampare sullo schermo, quanto basta per raggiungere lo spettatore di turno, quest’ultimo chiamato a fare i conti con un ventaglio ampio e vasto che arriva tanto da fuori quanto da dentro la pista di atletica dove il protagonista si trova a combattere contro ciò che lo tormenta e contro gli avversari di turno. L’1:54 del titolo si trasforma così nel tempo da battere in gara, ma soprattutto in una metafora che merita di essere colta e assimilata. Dentro c’è un messaggio attualissimo, legato anche al tema della piaga del cyber bullismo, epurato per fortuna da qualsiasi morale a buon mercato. In tal senso, un film come questo potrebbe dire molto a un pubblico di adolescenti.
Ciò che resta è una pellicola che riesce in certi frangenti a toccare vette emozionali piuttosto elevate, alla quale manca solo il controllo e la misura per avere la quadratura del cerchio. Quando 1:54 trova il giusto equilibrio, allora la situazione cambia e i frutti si vedono in maniera lampante sullo schermo. Ed è lì che England e la sua opera prima offrono il loro lato migliore, dando la possibilità all’Antoine Olivier Pilon di Mommy di fare altrettanto e di regalare alla platea un’altra partecipe, intensa e dolorosa performance davanti la macchina da presa nei panni di Tim.
Francesco Del Grosso