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La ragazza di Stillwater

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VOTO: 7

In terra straniera

Anche nelle sue espressioni in apparenza più innocue, tipo la commedia fantastica Mr Cobbler e la bottega magica (2014) con Adam Sandler, il cinema di Tom McCarthy ha costantemente posto in atto una profonda riflessione sull’America e sulla sua vera identità, ben lontana dall’essere quell’agognata terra delle opportunità che la retorica patriottica dipinge. Non poteva certo sfuggire a tali istanze anche La ragazza di Stillwater, ultima fatica registica di McCarthy approdata, invero un po’ in sordina, nelle nostre sale direttamente dal Fuori Concorso del recente Festival di Cannes 2021.
Bill Baker è il classico redneck degli Stati Uniti del Sud, tutto religiosità e armi. Ha vissuto una serie di drammi personali, dalla moglie morta suicida, all’unica figlia, detenuta in Francia a scontare una condanna per l’omicidio di una sua amica. Quando Bill parte per andare a trovarla la sua esistenza andrà incontro a significativi cambiamenti.
Ancora dunque il racconto di un’America confusa e smarrita, quella messa in scena nel corso de La ragazza di Stillwater. Un paese sospeso tra il finto decisionismo trumpiano e le esitazioni della neo presidenza Biden, con una visione politica deteriore che si mostrerà in tutta la sua nuda vergogna nel finale del film. Un film di stretta attualità insomma, nonostante la vicenda narrata richiami alla mente quella di Amanda Knox – la quale pare si sia risentita. Chi vedrà il film ne comprenderà i motivi – e del famigerato delitto di Perugia, pur trasferendo il teatro dell’azione dall’Italia alla Francia.
Se la regia di McCarthy risulta al solito ammirevole nella propria capacità sopraffina di mimesi nel dramma umano narrato – come ne L’ospite inatteso (2007), tanto per citare un titolo di riferimento – stavolta è la sceneggiatura de La ragazza di Stillwater a prestare il fianco a qualche possibile critica. Parecchio distante dalla perfezione drammaturgica dell’ottimo Spotlight (2015) lo script a quattro mani (opera dello stesso McCarthy, con Marcus Hinchey, Thomas Bidegain e Noé Debré), oltre a mostrare qualche snodo narrativo piuttosto brusco e perciò vagamente stonato, sottolinea in maniera eccessiva la sovrapposizione di Baker e la figlia Allison con un paese in crisi, la “più grande democrazia del mondo” che appare alla stregua di un elefante imprigionato in una cristalleria, incapace di muoversi senza recare danno a se stesso e agli altri. La trama de La ragazza di Stillwater si biforca quasi subito in due direzioni distinte, poi destinate ad incrociarsi: nella prima, quasi di genere thriller, lo spettatore assiste agli sforzi di Bill Baker atti a trovare prove che scagionino sua figlia dalla colpevolezza; dall’altra, la più riuscita, osserviamo con occhio neutro l’inserimento del protagonista in un nuovo contesto affettivo a Marsiglia, a sfiorare il legittimo desiderio di una seconda possibilità esistenziale. Un’emozione che scorre sottotraccia di cui parte del merito va attribuito alla solidissima performance attoriale di un Matt Damon in perfetto controllo del ruolo, stolido ma al contempo sensibile al punto giusto nel ritrarre uno dei suoi personaggi maggiormente significativi della propria carriera, genitore controverso ma sinceramente amorevole. Prova d’attore forse non del tutto sufficiente ad elevare La ragazza di Stillwater (Stillwater è il titolo originale del film, nonché la località dell’Oklahoma da dove provengono padre e figlia) ad opera di culto; però l’epilogo, impregnato di quel sincero umanesimo altro marchio di fabbrica del cinema di McCarthy, possiede il grande merito di tramutare lo stereotipo ed il luogo comune in vita vera, ricordandoci come chiunque possa cambiare la propria prospettiva, a patto di essere messo in condizioni di farlo. Basterebbe anche solo questo aspetto a consigliare un’opera cinematografica imperfetta e tuttavia pulsante di emozioni autentiche.

Daniele De Angelis

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