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Mr Cobbler e la bottega magica

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VOTO: 6.5

Nelle scarpe degli altri

Tra gli effetti collaterali della vittoria agli ultimi Academy Awards de Il caso Spotlight come miglior film, ecco arrivare nelle sale nostrane questo Mr Cobbler e la bottega magica, amena favoletta con annessa morale incorporata. Se vi state chiedendo quale sia il rapporto che lega i due lungometraggi è presto detto: The Cobbler – cioè Il calzolaio, questo il titolo originale – datato 2014, è il film è precedente nella filmografia di Tom McCarthy, per l’appunto regista, l’anno successivo, del giustamente apprezzato Spotlight.
Abbandonato il realismo poetico di opere passate quali ad esempio il mirabile esordio The Station Agent (2003) oppure la sottile esplorazione dei rapporti umani presente nell’ottimo L’ospite inatteso (2007), stavolta McCarthy rivisita la commedia fantastica, muovendosi sui terreni ambiziosi dell’evento straordinario capace di cambiare l’altrimenti piuttosto statica esistenza del personaggio principale, un po’ come accaduto nel capolavoro di riferimento Ricomincio da capo (1993) di Harold Ramis. In Mr Cobbler e la bottega magica troviamo il povero Max Simkin (un convincente Adam Sandler, in grado di confermarsi attore di piccole ma significative sfumature una volta operante fuori dai grossolani schemi comici che gli sono propri), calzolaio quarantenne di quarta generazione dalla vita bloccata in una costante routine cristallizzata tra lavoro e casa, a prendersi cura dell’anziana madre. Classiche premesse narrative da “c’era una volta” insomma, con l’elemento fantastico che irrompe sotto le spoglie di un’antica cucitrice dai poteri magici, che consente, dopo la riparazione delle calzature ed una volta indossate, a Max di assumere le sembianze dei proprietari. Ovviamente il nostro, dopo la più che comprensibile sorpresa iniziale, cercherà di sfruttare la cosa a fini prima edonistici poi di lucro, salvo poi prendere gradatamente coscienza di quanto sia complesso vivere sotto le spoglie altrui le mille possibilità esistenziali che gli potrebbero venire riservate.
Il giochino portato avanti da McCarthy, anche sceneggiatore assieme a Paul Sado, è abbastanza scoperto e risaputo, tuttavia con qualche guizzo di originalità in uno script che riserva non pochi intelligenti colpi di scena lungo il suo evolversi e nel finale. I dubbi “pirandelliani” del protagonista – essere questo o essere quello, fino a scoprire l’autentica essenza di se stessi – confluiscono in un meccanismo narrativo non sempre fluido ma che non risparmia quei momenti di spicciola poesia ai quali ci aveva abituato il cinema di McCarthy sino ad ora, come un ultimo incontro, ampiamente desiderato dalla madre di Max, con il marito da tempo eclissatosi, in cui è Max stesso a rivestire il ruolo paterno dopo averne messo ai piedi le scarpe. In questo tardivo (per l’età del personaggio principale) racconto di formazione si pone soprattutto l’accento sul tempo che scorre inevitabile, sprecato senza uno scopo; si critica il capitalismo unicamente deputato al guadagno personale in barba a qualsiasi interesse di benessere comune e infine si racconta che ogni fatto o azione può avere un senso differente se osservato da un’altra angolazione. Quella, appunto, che richiede l’immane sforzo di mettersi nei panni – o nelle scarpe, in questo caso – degli altri per comprendere meglio il senso di scelte quasi mai facili. Per questi motivi – oltre alla presenza nel cast di Steve Buscemi e addirittura Dustin Hoffman, in un ruolo, vedere per credere, “intercambiabile” – anche The Cobbler, pur rappresentando un capitolo senza dubbio minore nella filmografia di McCarthy, merita una visione non distratta. Anzi, in fin dei conti piacevole al pari di una storia tradizionale dalla portata universale, oralmente e visivamente tramandata di generazione in generazione per non perdere la coscienza delle proprie radici. Del luogo da dove siamo venuti, di chi siamo stati e di chi siamo tuttora.

Daniele De Angelis

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